Economia

Manageritalia: la responsabilità sociale è un affare

La Csr paga: il 55% dei consumatori mondiali la premia, e sta diventando uno svantaggio non averla. La crescita dei csr manager e la nascita di funzioni ad hoc nelle aziende principali dice che ormai è parte del business

di Redazione

Se il 55% dei consumatori mondiali è disposto a pagare di più per prodotti e servizi di aziende che si impegnano ad  avere un positivo impatto sociale e ambientale (Nielsen 2014), per le aziende oggi essere socialmente responsabili non è più un vantaggio, ma è diventato uno svantaggio non esserlo.

Questo il messaggio forte e chiaro uscito stamattina dall’incontro “CSR: da impegno sociale a vantaggio competitivo” organizzato a Bologna da Manageritalia, Fondazione e Università Alma Mater, Università di Cadice, Osservatorio andaluso della csr e Dirse (Associazione dei direttori della Csr di 35 aziende spagnole quotate a Madrid) che è la tappa di un progetto internazionale iniziato tre anni fa.

«Oggi la responsabilità sociale – ha detto aprendo i lavori Mario Mantovani, vicepresidente Manageritalia – non è più un lustrino aggiuntivo, ma è un valore effettivo e un vantaggio competitivo. Ormai non si premia tanto chi ce l’ha, ma si boicotta chi non ce l’ha. La sua applicazione deve però permeare tutta l’azienda, partendo dai vertici, ma prendendo forma e sostanza da tutti i suoi collaboratori. Quindi, proprio con loro bisogna prima metterla in pratica e poi portarla all’esterno. È indubbio quindi il ruolo dei manager, ma anche di chi, come noi, li rappresenta e deve insieme a loro e agli imprenditori lavorare per farla diventare fattore culturale e valore di base. Non è un caso che per la sua vera diffusione e affermazione stia prendendo piede sia la figura del csr manager, che l’area funzionale dedicata alla csr. E oggi ormai l’80% delle società quotate ha un csr manager».

L’incontro – aperto anche dagli interventi di Silvia Giannini, vicesindaco di Bologna, e Guido Sarchielli, prorettore Alma Mater Studiorum Università di Bologna – si è poi concentrato sui casi reali di aziende nazionali e internazionali.

«La csr in Pirelli – ha detto Eleonora Giada Pessina, Group Sustainability officier Pirelli & C – è da tempo un fattore strategico e parte determinante della nostra strategia. Di conseguenza è uno degli obiettivi principali dei manager e non è confinata solo nella sua specifica funzione, ma le permea tutte».

«La responsabilità sociale – ha detto Walter Dondi, responsabile etico e csr Gruppo Unipol – è nel dna di un’azienda come Unipol, che nasce proprio su questi valori. Tant’è che da sempre lavoriamo per assicurare i rischi delle popolazioni parlandone con loro e coinvolgendoli nella costruzione dei nostri prodotti. Questo stiamo attualmente facendo per gestire i rischi connessi alle sempre più frequenti alluvioni».

Molto interessanti anche le esperienze estere. «Da anni – ha detto Ignazio Romano Cantera, presidente Agua de Cadiz S.A. – siamo attenti all’impatto ambientale e sociale delle nostre azioni e servizi. E proprio l’immagine positiva presso la cittadinanza di Cadiz ci ha permesso di gestire al meglio una recente emergenza che ci ha portato a bloccare l’erogazione dell’acqua per un allarme sanitario. E la nostra responsabilità sociale parte da quella agita nei confronti dei nostri collaboratori, che poi la devono agire all’esterno in nome e per conto nostro».

«La responsabilità sociale – ha detto Riccardo Tejero, direttore organizzazione e logistica Leroy Merlin Spagna – è parte integrante della vita di un’azienda. Per noi già da tempo non è neppure un dovere, ma piuttosto un valore. E sicuramente oggi la responsabilità sociale è uno svantaggio per chi non ce l’ha».

Interessante anche notare come quest’attenzione da parte dei consumatori e cittadini alla responsabilità sociale sia già oggi riferibile a più di mezzo mondo (55% a livello globale quelli che pagano di più per prodotti/servizi di società socialmente responsabili), ma tocchi soprattutto l’atro mondo (Asia 64%; America Latina e Africa/Middle Est 63%), mentre è più bassa proprio in America (America del Nord 42%) e nel vecchio continente (Europa 40%).

Ma è in vertiginosa crescita in ogni dove (10% in media dal 2011 al 2014), quindi non se ne può più fare a meno, pena l’uscita dalle scelte dei consumatori e dal mercato.

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