Ottomila. Fosse anche solo un malato per ogni malattia, potremmo contare in Italia ottomila cittadini quasi sicuramente “orfani” di medicine e di cure. Il fatto è che ci sono forse più convegni e associazioni e coordinamenti di associazioni che malati. No, questo non è vero. Mi contraddico. I malati sono sicuramente di più. Ma non sappiamo esattamente quanti.
Mi sento un po’ in colpa, su questo versante. Già, perché anche io, modestamente, faccio parte della categoria. Sono arrivato quasi a sessant’anni nonostante gli esiti dell’osteogenesi imperfetta. Una appunto di queste ottomila patologie, frutto dell’impazzimento del dna. Non siamo tantissimi, e ognuno di noi è diverso dall’altro. Più o meno piccoli, più o meno storti. Uomini e donne con le ossa fragili, ma non fragili allo stesso modo, ci mancherebbe. Quindi dovrei occuparmene di più. E invece da troppi anni mi sono tirato indietro. I primi tempi, quando nacquero i coordinamenti, i tentativi di fare rete, mi ero dato da fare con entusiasmo. Poi mi sono fermato.
Perché? Beh, se devo dire la verità, e agli amici di Vita non posso fare a meno di dirla, mi ero trovato in una compagnia molto eterogenea. Tante brave persone, ci mancherebbe altro, ma spesso animate da un ego smisurato, un narcisismo inversamente proporzionale – talvolta – al numero delle persone o delle famiglie rappresentate. Ho visto molto presto la competizione per emergere, per dirigere, per presiedere, per coordinare. Che cosa? Il nulla, o quasi. Ma con l’idea balzana di poter contare molto nei tavoli che contano. Nei ministeri, ad esempio. O laddove si decidevano gli stanziamenti per i laboratori di ricerca o per i centri clinici. E poi scoprivo questa strana e per me non molto limpida cogestione di molte associazioni fra genitori di pazienti e medici e ricercatori. Capisco che il nostro è il Paese nel quale il concetto di conflitto di interesse non viene insegnato forse neppure nelle aule di diritto all’università, però a me pare singolare che in un terreno così minato come quello della ricerca farmacologica e clinica non si operi, sin dall’inizio, separando nettamente competenze e incarichi. Mica per altro, ma perché non si sa mai.
Gli anni sono passati e non mi risulta che molto sia cambiato, anche se si sono moltiplicati i portali internet e i coordinamenti associativi, sempre costituiti da brave persone che si danno un gran da fare per farsi sentire a livello di governo, in Italia ma anche in Europa. Viaggi, convegni, seminari, gruppi di studio, documenti. Difficile seguire il fiume di carta e decodificarlo in termini di comunicazione normale. D’altra parte, è vero, stiamo parlando di malattie non solo rare, ma addirittura impronunciabili, e le sigle delle associazioni sono spesso ancora più impronunciabili delle malattie, anche se addolcite da loghi dolci, simbolici e accattivanti, che ci fanno sperare in un mondo migliore.
Il punto di fondo mi pare sia rimasto sempre lo stesso: le malattie sono talmente rare che non c’è un interesse reale delle case farmaceutiche a sviluppare ricerca, perché tanto la diffusione e la vendita dei farmaci non sarebbe affatto redditizia. E poi le situazioni sono talmente diverse che ogni malattia meriterebbe un centro di ricerca, e la rete è una bella cosa ma poi di fatto è difficile farla funzionare. A livello centrale e governativo si potrebbero fare tante cose, ma la volontà politica si scontra con la caducità dei governi e dei parlamenti. Il tempo passa.
Fino ad oggi, 29 febbraio, giornata delle malattie rare. Lo so, sembra uno scherzo: anno bisestile, se ne parla fra quattro anni, se vogliamo trovare un altro 29 febbraio. No, non è così. La giornata c’è tutti gli anni, e questa volta si è riempita magicamente di tante iniziative in giro per l’Italia compresa una marcia pacifica per le vie del centro di Milano. Mi pare che si cominci a delineare una speranza, un modo diverso di porre la questione. Ovvero, dietro le malattie, ci sono le persone. I bambini, nella metà dei casi. Che hanno un nome, una dignità, dei diritti, come tutti gli altri. Io parlerei più volentieri di “destini rari”, più che di malattie. Forse è proprio il termine “malattia” che mi ha allontanato da questo mondo, e mi scuso della mia latitanza, davvero. Ma ormai da tempo sono abituato a ragionare di “persone con disabilità” e di diritti. La malattia è la premessa della disabilità, non la sostanza. Ma mi rendo conto che a volte non c’è neppure il tempo per sorridere o per piangere. La vita si prende tutto, prima ancora che sia possibile sperare in una cura. Ecco perché vorrei meno convegni, meno premiazioni, meno bandiere, e forse un po’ più di lotta assieme agli altri, a quelli che sembrano più forti e grossi, ma che semplicemente da tempo hanno capito che in questi tempi così difficili solo una unione più larga, basata sui diritti di cittadinanza, può salvarci dal peggio.
Sperando di farmi perdonare, auguro buona fortuna e lunga vita a tutte le persone che convivono con le malattie rare, ai loro familiari, ai loro amici, ai medici, ai volontari, a questo mondo straordinario e composito, che meriterebbe più ascolto competente, e meno solidarietà sentimentale.
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