I numeri sono da record del mondo. Eppure negli ospedali italiani ci sono tante esperienze che sono riuscite ad arginare il fenomeno abnorme delle nascite con il bisturi. Siamo andati a vederle… Che partorire non sia quasi mai una passeggiata le donne lo sanno da millenni, ma oggi – dopo gli ultimi drammatici casi di errori e stranezze in sala operatoria – sta diventando addirittura causa di panico collettivo. «L’Italia e lo spettro dei parti insicuri» titolava giorni fa un grande quotidiano nazionale, analizzando la situazione e puntando il dito contro l’abitudine, ormai consolidata, di ricorrere al taglio cesareo. Eppure, se si cerca di saperne di più, si scopre con sorpresa che l’Italia è considerata il Paese migliore dove nascere: con una percentuale di 3,9 decessi ogni 100mila nati vivi siamo gli ultimi nella classifica della mortalità durante la gravidanza e il parto. Lo sostiene una ricerca dell’Institute for Health Metrics and Evaluation, secondo la quale superiamo addirittura Svezia, Lussemburgo e Austrialia.
«In Italia manca una cultura al parto, che non è più considerato un evento naturale, né da parte dei medici né da parte delle donne. Questo aver “medicalizzato” la gravidanza porta a non discriminare le gravidanze fisiologiche da quelle patologiche e quindi a non dividere correttamente i percorsi da seguire», sostiene invece Patrizia Vergani, direttore dell’area ostetrica all’ospedale San Gerardo di Monza. Il suo è uno dei rari esempi italiani di eccellenza (insieme all’ospedale S. Chiara di Trento, al Burlo Garofolo di Trieste e a quello di Castellammare di Stabia diretto da Ciro Guarino) dove il tasso di utilizzo del taglio cesareo è ai livelli più bassi. «La base dell’organizzazione qui a Monza è l’individuazione dei fattori di rischio e la differenziazione del percorso», dice. «Naturalmente in tutto questo ci vuole l’assistenza durante il travaglio e il parto, quello che l’Oms chiama rapporto “one to one”, cioè un’ostetrica e una donna, un accompagnamento per ridurre l’ansia, la paura. Poi ci sono i protocolli in sala parto condivisi da tutti gli operatori attraverso audit post hoc sui casi. E infine una politica di coinvolgimento delle donne. C’è molta partecipazione, ad esempio, ai nostri corsi di accompagnamento al parto, che iniziano tra il quinto e il sesto mese; li facciamo tutti i giorni a 30 donne, uno al mattino e uno al pomeriggio, per 5 giorni la settimana tutto l’anno e ci sono perfino liste d’attesa».
Ne è convinto anche un medico in trincea come Alessandra Kustermann, direttore di Pronto soccorso ostetrico alla Mangiagalli di Milano. Fiore all’occhiello dell’ospedale è il servizio di analgesia epidurale attivo 24 ore su 24 fin dagli inizi degli anni 90 e gratuito per qualunque donna scelga di partorire con meno dolore, ma ha anche una percentuale dei parti cesarei molto alta, circa il 40% sui 6.600 effettuati in un anno, perché qui vengono inviate molte donne con patologie materne o fetali. «Io credo che le cause dell’aumento del ricorso al cesareo siano molteplici, alcune correggibili equiparando i rimborsi dei parti vaginali e chirurgici o chiudendo i punti nascita troppo piccoli, altre più complesse come la maggiore paura del parto, sia da parte delle donne sia dei medici, l’età più elevata delle donne che affrontano la maternità, l’aumento della sterilità e il basso numero di figli per coppia», afferma.
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