Mondo
Mai più Vietnam, perdonami Kim
Lui, il carnefice: John Plummer, ex capitano dellaviazione americana inseguito dai fantasmi del passato. Lei, la vittima: Kim Phuc, sopravvissuta ai bombardamenti.
Trang Bang. Con quella immagine sono state mandate in frantumi milioni di coscienze, allora. Una bimba vietnamita di 9 anni che corre nuda, le sue urla strazianti che segnano il selciato: «Troppo caldo, troppo caldo!! Nong qua, Nong qua!» grida. Il suo corpo brucia, le braccia levate in alto gridano l?ira contro Dio. Brandelli di carne che bruciano, il corpo che viene risucchiato, prosciugato. Sopra, molto più vicino a Dio, c?è però un giovane capitano americano, John Plummer, di 24 anni, che dà l?ordine di sganciare la bomba al napalm su un villaggio del Sud del Vietnam, infiltrato dai Viet Cong. Correva l?anno 1972. Per l?esattezza l?8 giugno del 1972. Il fotografo che immortalò quell?immagine era Nick Ut che, prima di regalare al mondo un pezzo di verità sulla guerra, fece in tempo a portare la piccola vietnamita all?ospedale. Sopra le nubi invece, non si vedeva niente, non arrivava l?odore di carne bruciata, né della morte. Sopra c?era il carnefice che, come in un film americano, ritroverà la propria vittima 25 anni dopo, per l?esattezza l?11 novembre del 1996. E con lei anche il perdono. L?incontro è passato quasi sotto silenzio. Solo un mensile americano, Biography, nel suo ultimo numero, lo ha raccontato . Ma prima devono passare quasi 25 anni.
È solo il 9 giugno del 1972 quando il giovane capitano John Plummer, ormai a 30 mila miglia di distanza da quel selciato, si siede per fare colazione e, scorrendo le pagine di Stars and stripes, la vede, una ragazzina vietnamita, in bianco e nero. Nuda. «That?s terrible! Io ho fatto questo?» esclama. Eppure il capitano alla guerra ci era avvezzo. E anche ai sensi di colpa. Come quando quattro anni prima un suo ufficiale era saltato in aria davanti ai suoi occhi per una bomba Vietcong e aveva fatto in tempo a dirgli: «That?s your fault, è tutta colpa tua». O come quando era diventato amico di Mun, un ragazzo vietnamita, che i vietcong uccisero perché era amico di un americano. A questo e altro pensava mentre le uova e il prosciutto cercavano di raggiungere il suo stomaco. Ma Plummer era tornato a casa, negli States, lontano dagli occhi di Dio, dove poteva conservare il suo segreto, ancora per un po?. Sì, perché in breve quell?immagine aveva iniziato a fare il giro del mondo e Plummer iniziò a scappare. Andò a Fort Rucker, in Alabama, a fare l?istruttore di volo, ma anche lì continuava a inciampare ?nella sua ragazza?, la foto che aveva fatto il giro del mondo continuava ad essere pubblicata, spesso senza commento. E la storia seguiva il suo corso. L? infanzia stroncata di una bambina vietnamita fissata su milioni di copie di un poster antimilitarista. Lei si trasformò in un angelo e lui in demonio. Lei viaggiava per parlare della guerra e lui distruggeva il suo primo matrimonio. E anche il secondo, che non resse alle sbronze con il suo amico Jim, ogni sera. John non trovava pace. «Era così tormentato che faceva cose senza senso», ricordano Ralph e Louise Plummer, i genitori di John. «Raccontava di come aveva salvato i suoi ufficiali da un aereo esploso in volo, sopra Saigon; ricordava tante storie, ma quella lì, mai».
John viveva due vite: di giorno come istruttore di volo, di notte come ubriacone al club degli ufficiali, lasciando a casa moglie e figli. Non riusciva a stare fermo e a pensare, perché ogni volta si spiaccicava contro quell?ombra che lo faceva impazzire, l?ombra di un?immagine in bianco e nero. Mancano ancora molti anni al loro appuntamento perché il destino aveva deciso così. E ha deciso per John che beve sempre di più, accartocciandosi su se stesso, senza speranza. Ogni notte con lo stesso incubo dove vede lei, la ?sua ragazza?, e i bambini che urlano sul selciato del Trang Bang. Finché richiude le valigie e arriva in Virginia, dove diventa reverendo metodista e ai suoi seguaci lascia intendere di possedere un segreto. Nel dicembre del 1981 si sposa per la terza volta e prova inutilmente a sedersi a parlare con i suoi demoni. Joanne, la terza moglie, lo spinge ad andare a una conferenza di un veterano del Vietnam. «Non vergognatevi di quello che avete fatto, perché avete lottato per la libertà di qualcun?altro…» dice il relatore, ma John non riesce ad assolvere se stesso perché intanto lei, la sua ragazza, il suo angelo è sempre lì che lo fissa da quel contorno in bianco e nero. Non lo accusa, certo che no, non dice niente, o meglio urla e basta. «Chissà se era morta o viva, chissà se lo aveva perdonato chissà…».
Correva l?anno 1996 quando lei gli apparve in un reportage televisivo sul Trang Bang day. E così la vide per la prima volta. Lui, il demonio, era seduto sul divano, sorseggiando un caffè. Ancora una volta lontano mille miglia dalla realtà. Lei, il suo angelo, si muoveva, aveva preso vita e aveva un nome. Kim Puc, di anni 30 che scivolava sulle nubi nere; il fuoco nel corpo, il coma e il ruolo di attrice forzata nei documentari della propaganda antiamericana; gli studi di medicina a Cuba, l?amore, la luna di miele a Mosca e l?esilio a Toronto. «Toronto? Toronto maledizione!» esclamò Jonh. Lei viveva in Canada, era viva; lui viveva in Virginia ed era morto. Due vite appese a uno stesso filo. John decise che doveva trovare quella donna, doveva guardare gli occhi del suo angelo e chiederle perdono. Entrò in uno stato di estasi, i suoi incubi divennero semiveglia, la sua apatia attesa del perdono. Ma il destino non era ancora convinto.Voleva aspettare ancora un po?. John passava giorno e notte a pensare a quell?incontro, a recitare la sua difesa, a pensare cosa le avrebbe detto; «Lei lo avrebbe maledetto? Avrebbe distolto lo sguardo, consegnandolo al silenzio per il resto della vita, o gli avrebbe permesso di uscire da quel lungo tunnel dove iniziava a vedere fasci di luce?» Erano una valanga di cose che iniziavano a venire giù.
Correva l?11 novembre del 1996, il giorno dell?inaugurazione del monumento ai veterani del Vietnam, a Washington. C?era lui, il demonio, e c?era lei, l?angelo. Entrambi erano stati invitati per seppellire il passato. C?era stata una guerra che ora non c?è più. Kim Phuc era stata preavvisata della sua presenza. Lui stava lì ritto e rigido fra la moglie Joanne e i suoi ex commiltoni; lei stava lì ritta ,in mezzo a due ombre, due guardie di scorta. Aspettava in silenzio. Poi lo speaker presenta Phuc e rammenta i suoi due fratelli uccisi dall?esplosione. John pensa ancora una volta come 25 anni fa. «Allora è vero, li ho uccisi io»: sente che la montagna sta per cedere e inizia a singhiozzare. Piange, mentre sente la voce della ?sua ragazza? per la prima volta. Phuc dice: «Ho sofferto troppo, ma non solo per il dolore fisico…». Ma lui non l?ascolta perché sta piangendo e la frana non si può più arrestare. «Non potevo respirare ma Dio mi ha aiutato e mi ha dato fiducia e speranza» continua Phuc «ma se dovessi stare faccia a faccia con il pilota che ha gettato la bomba, gli direi solamente che noi non possiamo cambiare la storia, ma forse il futuro sì».
Eccolo il perdono. Era arrivato, ma John non ebbe il tempo di frugare nel sguardo del suo angelo perché Phuc venne fatta scivolare via dal palco e un momento dopo anche l?ex capitano veniva spinto fuori, attraverso la folla. E fu così che la vide, per la prima volta in carne ossa. Qualcuno le appoggiò la bocca sull?orecchio sussurrandole forse il suo nome. Lei si fermò. Chiuse gli occhi, poi li riaprì, girò lentamente la testa. E fu così che si guardarono.
I casi in Italia
Da Bachelet al Papa, i perdoni illustri
Anche nella nostra storia più recente ci sono molti esempi di perdono e riconciliazione fra le vittime e i propri carnefici.
Stella Tobagi, vedova del giornalista ucciso il 28 maggio dalle Brigate Rosse, è riuscita a perdonare. A Marco Barbone, uno degli esecutori dell?omicidio che al processo aveva chiesto perdono ai figli, ha risposto indirettamente, attraverso due interviste, così: «Walter cercava di capire e di avvicinare coloro che avevano scelto la strada del terrorismo. Ora che lui non c?è più tocca a me parlarvi per farvi capire chi era l?uomo che avete voluto sopprimere (…) e se potremo ricostruire qualcosa insieme, io sarò disponibile».
Adolfo Bachelet, Il fratello del giudice Vittorio Bachelet assassinato il 12 febbraio del 1980 nel cortile dell?Università, si è spinto oltre e ha voluto andare in carcere per incontrare i terroristi dissociati e pentiti. Adolfo Bachelet, gesuita, che quattro anni dopo l?omicidio si è recato nelle carceri speciali e poi ha iniziato una battaglia per ottenere che anche lo Stato li perdonasse, nel 1984 ha detto:«Li ho trovati cambiati, immunizzati contro i vecchi errori, (…) ci deve stare a cuore anche la sorte di chi ha sbagliato e vuole redimersi».
Ma l?esempio più clamoroso di riconciliazione è avvenuta il 27 dicembre 1983, nel carcere di Rebibbia, quando papa Wojtyla ha incontrato il suo attentatore Alì Agca. Il pontefice, già quattro giorni dopo l?attentato, aveva detto: «Prego per il fratello che mi ha colpito, al quale ho sinceramente perdonato».
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