Formazione
Magatti: dobbiamo rivoluzionare l’educazione
L’intervento di Mauro Magatti, sociologo, docente presso l'Università Cattolica di Milano sul verbo “educare”, alla convocazione civica #InMovimento lanciata da Riccardo Bonacina al Teatro Elfo il 21 marzo scorso
L’immagine che mi veniva da associare a questo verbo – educare – pensando in particolare a questo Paese è quello dell’alveo, un alveo umano.
Noi siamo portatori di una storia – la storia umana, la storia europea: l’alveo dentro cui l’umano è cresciuto è storicamente un alveo molto ricco – una delle ragioni per cui l’Italia è creativa. Dobbiamo ripensare all’educare ripensando a quell’alveo e cosa vuol dire oggi immaginare un alveo in cui l’umano possa formarsi, crescere, svilupparsi e mantenersi vitale.
Su questa premessa faccio cinque telegrafiche sottolineature.
La prima la conosciamo tutti benissimo: quando si parla di educazione oggi è necessario riaffermare che l’educazione è un investimento e non è un costo. Solo le società che investono nell’educare hanno un futuro. Non c’è nessun altro modo per nessuna società di vivere ancora, proiettata negli anni che vengono, se non investendo nell’educazione di se stesse: è una banalità che nel nostro paese da tanto tempo è stata dimenticata. Investimento significa che tu semini e raccoglierai dopo, che non raccogli subito.
La seconda parola è innovazione. Uso sempre questo esempio: cento anni fa, quando la quota di popolazione che sapeva leggere e scrivere era nell’ordine del 3, 4, 5%. Quando qualcuno ha cominciato a immaginare che fosse giusto, fosse importante arrivare alla scuola per tutti e universalizzare il diritto all’istruzione, i primi che hanno pensato una cosa del genere gli hanno detto “questo è cretino”. Il livello di elevazione culturale della nostra società è tale per cui rispetto all’idea dell’istruzione che c’era cento anni fa abbiamo accumulato un ritardo tale per cui nel campo dell’educazione dobbiamo immaginare dei nuovi programmi, un rilancio di proporzione analogo a quello che cento anni fa hanno fatto nel momento in cui si immaginò l’istruzione obbligatoria per tutti. Che era una follia. Non si tratta di fare dei piccoli aggiustamenti nel campo dell’educazione, non si tratta di fare dei piccoli aggiustamenti tecnici, si tratta di immaginare una stagione nuova – ambiziosa, coraggiosa e in cui all’inizio possiamo essere presi per matti. Cosa può voler dire questa cosa?
Terzo punto: l’educazione oggi non può più riguardare il periodo che va dai tre anni ai diciotto anni. Bisogna prima di tutto anticiparla, perché noi sappiamo che ci sono degli studi molto precisi in questo. Dal punto di vista cognitivo quando il bambino arriva alla scuola materna metà del suo destino è stato scritto. Uno dei punti fondamentali è che bisogna accompagnare – certo non sostituire – la famiglia fin dai primi mesi nell’inserimento del bambino. In Italia non c’è attenzione al bambino dai 0 a 3 anni: da 0 a 3 uno si arrangi. Quindi c’è quel pezzettino lì poi c’è tutto il pezzo dopo la scuola. Sarà per il mestiere che faccio – che è una grande fortuna – però mi capita di fare questa esperienza – perdonatemi un po’ di arroganza intellettuale: incontrare uomini di 40, 50, 60 anni e percepire che quell’elemento spirituale e anche cognitivo che passa attraverso l’educazione e si è perso molto tempo fa, la sensazione fisica che hai è che siano un po’ come dei relitti persi chissà dove rispetto a un mondo che va avanti. Cioè non si può immaginare che l’educazione finisca a 18 anni. C’è il problema della formazione permanente: non si può pensare che il processo educativo finisca nel momento in cui si raggiunge la maggiore età. Come possiamo immaginare l’educazione oltre la fine della scuola?
Quarto punto: noi ereditiamo dal Novecento tutta una serie di dicotomie che hanno avuto un senso e che oggi hanno bisogno di essere superate. Prima dicotomia: mente-mano. In questo Paese in particolare le abbiamo separate. Per una quantità di ragioni che mi perdonerete se non illustro dobbiamo rilegare questi due elementi, dobbiamo trovare il modo di farle comunicare di più. Seconda dicotomia: pubblico privato. Benedetta la scuola statale nel Novecento, che ha consentito di fare degli enormi passi avanti. Io credo che in una società che diventa più complessa dobbiamo immaginare una scuola pubblica che non necessariamente sia statale e che permetta una capacità di sperimentazione, una capacità di articolazione che la scuola statale – che gestisce un milione di dipendenti – non può immaginare di fare. Naturalmente senza che questo ci porti alla scuola privata. Terza dicotomia: cultura umanistica e cultura scientifica. Cultura scientifica che si sviluppa in assenza di riferimenti a una storia del pensiero dell’umano e il pensiero dell’umano che sembra disinteressarsi all’avanzamento dello scientifico. Anche questo è un punto che nella nostra storia è stato affrontato dalla grande vicenda dei licei, ma che oggi – così come sono – danno una risposta inadeguata. Occorre superare queste dicotomie ricongiungendone i termini.
Quinto punto: locale e globale. Non possiamo più immaginare una scuola che sia puramente locale; non possiamo più immaginare un’educazione che sia confinata a uno spazio piccolo. Quando mi capita di parlare ai vescovi e ai preti, dico sempre questo: siccome una delle attività che funzionano di più negli oratori sono le attività estive, chiedo loro di portare i ragazzini anziché alla montagna di fianco del bergamasco, molto meglio fare uno scambio con la parrocchia spagnola e portateli lì con un volo low cost. Ci vogliono, insomma, esperienze incarnate dentro il processo educativo.
Ultimo punto: il tema dell’educazione è il tema della libertà, che per me è la vera questione di questo XXI secolo. Non c’è libertà senza educazione e naturalmente non c’è educazione senza libertà. Dobbiamo recuperare la parola disciplina. Questa parola ci sta antipatica ma viene da discere, cioè fondamentalmente l’unico modo attraverso cui l’umano apprende. Disciplina sportiva: modo attraverso cui apprendiamo l’arte di uno sport o la disciplina per imparare a suonare uno strumento. L’educazione e la libertà hanno bisogno di tornare a fare i conti con la disciplina. Non certo la disciplina che una qualche autorità strana ci impone ma che ci liberi fondamentalmente dalla perdizione e dal nulla in cui il nostro io rischia di rimanere imprigionato.
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