Dalle stragi di Capaci e via d’Amelio una reazione sociale prorompente. Dopo gli attentati del 1992 si diffondono in tutto il Paese comitati spontanei, movimenti, associazioni e mobilitazioni di ogni sorta: la mafia diventa definitivamente un problema prioritario per la collettività. Di certo molte delle esperienze di quegli anni muovono per lo più in un’ottica emozionale ed emergenziale, tanto da esaurirsi in poco tempo. Ma fra queste emergono diverse forme di aggregazione attente, responsabili e impegnate, che promuovono in tutto il Paese l’educazione alla legalità e alla cittadinanza.
Ed è proprio sulla scia di queste mobilitazioni che nel 1996 viene approvata una legge di iniziativa popolare che prevede anche la restituzione alla collettività dei beni immobili confiscati alle mafie per usi sociali. E’ il passaggio che comporta una vera e propria rivoluzione nella lotta contro la criminalità organizzata: non più circoscritta ad una contrapposizione tra Stato e mafia bensì una questione che coinvolge direttamente la cittadinanza. Una soluzione che dà fastidio ai clan. Pochi giorni fa l’ennesimo attentato ai terreni confiscati alla mafia, che ha mandato in fumo 7.500 metri quadrati coltivati a orzo a Isola Capo Rizzuto, in Calabria. L’ultimo di una serie di incedi dolosi che nell’ultimo mese ha colpito campi di grano, uliveti e agrumeti in varie parti della Sicilia, in Campania ed in Puglia, su terreni gestiti da cooperative legate a Libera.
Le ragioni? I beni confiscati costituiscono in concreto una risorsa per il territorio, un’opportunità di sviluppo e di rinnovamento culturale. Attraverso il sequestro e la confisca dei patrimoni illeciti è possibile non solo privare la criminalità organizzata delle ricchezze che vengono utilizzate per commettere altri reati ma anche soddisfare bisogni collettivi: creare coesione sociale, diffondere la cultura della legalità, offrire un’alternativa all’affiliazione mafiosa, rispondere alle esigenze di persone in condizione di disagio. I beni confiscati sono dunque beni strumentali al perseguimento dell’interesse generale, come sottolineato da Alice Mora, dell’Università di Trento: “Ville, case, palazzi, adibiti oggi a strutture di recupero per tossicodipendenti, spazi di recupero funzionale e sociale, luoghi di recupero socio-lavorativo riabilitativo, comunità alloggio destinate all’erogazione di prestazioni di servizi socio-sanitari nell’area dell’handicap e della tutela della salute psico-fisica”.
Ma di fronte a questi indiscutibili vantaggi emergono alcune disfunzioni di grande rilevanza: in primo luogo lo stato di abbandono di immobili consegnati alle amministrazioni locali e tutt’ora vuoti, in secondo luogo lo svolgersi di attività che mal si conciliano con le finalità della legge che li vorrebbe restituiti alla collettività, e ancora un forte accentramento dei beni destinati ad usi sociali nelle mani di pochi soggetti “istituzionalizzati”. Emerge poi il problema dei beni immobili ipotecati: con il sequestro il riscatto passa dal mafioso ai comuni che ne hanno preso possesso. Ma molti comuni italiani non hanno risorse per pagare debiti contratti dai mafiosi, in questo modo il circolo virtuoso previsto dalla legge 109 del 1996 rischia di interrompersi. La ministra dell’Interno Anna Maria Cancellieri, ultima in ordine di tempo, è poi convinta che dalla vendita dei beni immobili possano scaturire risorse per assicurare servizi essenziali, altrimenti non erogabili secondo una logica sostitutiva della cosiddetta società civile.
A partire dalla contrapposizione fra due “totem” della lotta antimafia, come don Luigi Ciotti e Roberto Saviano, il primo strenuo difensore della destinazione sociale dei beni confiscati, il secondo promotore -su Twitter- di una vendita immediata delle proprietà sequestrate, il dibattito è riaperto. Soluzioni opposte ma non inconciliabili, a patto che l’educazione alla legalità e la responsabilizzazione della cittadinanza continuino ad essere impegni prioritari. Altrimenti nessun intervento di natura economica sarà mai sufficiente.
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