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Madre affidataria, lutto negato
Una donna accoglie un ragazzino di 12 anni che, cinque anni dopo, muore in un incidente stradale. Allo strazio si aggiunge il dolore di essere totalmente esclusa dall'ultimo addio: la famiglia di origine lo fa tumulare in Tunisia. La norma infatti nega ogni diritto ai genitori affidatari
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Perdere un figlio è uno degli avvenimenti più tragici che possano accadere nella vita. Per i genitori affidatari il dramma può essere doppio: da un giorno all’altro si ritrovano a non essere più nulla per un bambino o un ragazzo che magari hanno cresciuto per anni. Secondo la legge, infatti, sono i genitori biologici a poter entrare in ospedale, a decidere cosa fare in caso di operazioni e a stabilire quello che succederà dopo la morte del figlio, anche nel caso dell’affido a tempo indeterminato, sine die.
È questo il dolore che sta lacerando Roberta, che due anni fa ha perso in un incidente d’auto suo figlio in affido, Rashid (entrambi sono nomi di fantasia). «Io vivevo per lui: la mia vita è finita con la sua», dice. Il ragazzo era arrivato da lei a 12 anni, lei l’aveva seguito, l’aveva portato a fare sport – era diventato molto bravo a giocare a calcio –, gli aveva restituito un futuro. Al compimento del diciassettesimo anno d’età, il ragazzo aveva firmato davanti al giudice un documento che permetteva di prolungare la permanenza da Roberta per altri quattro anni.
Eppure, quel tragico giorno, è finito tutto. Un’automobile guidata da una persona in stato di alterazione ha colpito il motorino su cui Rashid tornava a casa da una serata fuori assieme a un amico. L’urto è stato troppo violento perché i soccorsi potessero fare qualcosa: il ragazzo è stato portato in ospedale, ma là è spirato. «Il motorino era mio, sono stata la prima a essere chiamata. Poi ho telefonato ai servizi sociali e siamo andati in ospedale», continua la donna, «volevo vedere Rashid, ma il dottore mi ha fermato dicendomi che non avrei potuto, perché non avevo più nessun diritto. Poi ha capito quello che era successo e mi ha fatta entrare lo stesso».
All’inizio, Roberta non aveva realizzato quello che era accaduto, ma poi il dolore è arrivato due volte, nei giorni successivi. Perché sapere o non sapere quello che ne sarebbe stato dei resti di Rashid dipendeva ormai solamente dalla buona volontà dei genitori biologici e non dalla legge. Il corpo è stato portato in Tunisia, Paese d’origine, del padre, senza che lei ne sapesse nulla. Là si sono svolte le esequie. È stata celebrata una piccola funzione anche in Italia, di cui Roberta ha saputo accidentalmente. «Mi ha chiamata per sbaglio una persona dal consolato», ricorda, «che doveva contattare i genitori biologici. Era il giorno stesso della celebrazione».
Non che lei avrebbe avuto qualcosa da ridire sulla funzione musulmana e sul trasferimento della salma: era consapevole che il ragazzo si stava avvicinando alla religione del padre, l’aveva anche sostenuto quando l’anno prima aveva voluto fare il Ramadan. Il dolore devastante è stato vedersi cancellata, come se l’affetto che si era faticosamente guadagnata in sette anni non significasse nulla, come se la morte di Rashid avesse cancellato con un colpo di spugna tutto il percorso che avevano fatto assieme. Momenti belli e momenti brutti, sforzi, gioie, vittorie e sconfitte: vita quotidiana che la penna implacabile dei burocrati ha giudicato insignificante.
Eppure, secondo Roberta, l’affido resta un’esperienza straordinaria. «Io sono sicura di aver cambiato la vita di questo ragazzo», confida, «con tanti sacrifici fatti col cuore. Ero da sola, senza nemmeno un compagno, gli ho dato tutto quello che potevo, ho sempre lottato per lui». C’è però una cosa che la donna continua a ripetere, raccontando la sua storia. «La legge deve cambiare. Io alla morte di Rashid non ero più niente, non lo sapevo. È stata una tragedia nella tragedia».
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