Welfare

Made in carcere, il lavoro dietro le sbarre

Laboratori di cucito o alimentari, sport. Sono tante le attività che coinvolgono i detenuti nelle carceri italiane. Una mappa di alcune di queste iniziative

di Mara Cinquepalmi

La vita oltre le sbarre ha i colori degli abiti cuciti dalle detenute di Milano, Bologna, Lecce o l’odore del caffè torrefatto a Rebibbia. Lavorare in carcere è un’opportunità che mette alla prova detenuti, istituzioni e operatori. Un’opportunità come quella che Luciana Delle Donne ha voluto dare alle detenute di Lecce con il progetto Made in carcere. Un passato nel mondo della finanza, poi il ritorno nel suo Salento e dal 2008 “grazie alla collaborazione della direttrice del carcere di Lecce Rita Russo – spiega Delle Donne a Vita – abbiamo avviato i laboratori di cucito”. Oggi sono circa quindici le donne impegnate a cucire i prodotti di Made in carcere, ma soprattutto “le donne coinvolte – continua Delle Donne – nel giro di due tre mesi imparano un mestiere, la responsabilità delle consegne, i vantaggi che vengono fuori da un modello di lavoro semplice”. Le sarte del progetto realizzano borse e gadget con tessuti che la moda scarta: “Noi – racconta ancora l’ideatrice di Made in carcere – raccogliamo e diamo una seconda vita a tessuti che altrimenti andrebbero al macero”.

Ora la sfida è “formare altre risorse per costruire competenze che non si limitino solo alla sartoria, ma anche organizzative, come se dovessero loro stesse imprenditrici”.

Made in carcere è uno dei numerosi progetti di cucito che, da Nord a Sud, coinvolgono le detenute. Come quello ormai storico della Sartoria San Vittore a Milano che ripara anche le toghe dei giudici. Venticinque detenute cuciono nei tre laboratori sartoriali, due dei quali a San Vittore e a Bollate. A Venezia il Banco Lotto n.10 è l’unico punto vendita dove acquistare gli abiti realizzati nel carcere femminile della Giudecca. Qui sette detenute, affiancate da una sarta e da una cartamodellista, imparano a cucire e creano vestiti, giacche, borse e accessori di moda. Prende il nome dalla via dove si trova il carcere bolognese il laboratorio sartoriale Gomito a Gomito. Attivo dal 2010, il laboratorio coinvolge detenute, che hanno seguito un percorso di formazione, di acquisire una nuova competenza professionale. La parola d’ordine del laboratorio bolognese è riciclare: le sarte recuperano materiali di scarto e danno ad essi una seconda vita.

Dalle sartorie alle cucine. Tra le attività che vedono impegnati i detenuti molte si svolgono tra i fornelli. L’iniziativa più recente è nata sempre alla Dozza di Bologna dove, quattro detenuti sono stati assunti dall’azienda salentina "Liberiamo i sapori", che ha aperto il primo caseificio all’interno del carcere di Bologna, dentro una ex tipografia.

Rimaniamo in cucina, ma questa volta per caffè, biscotti e altre delizie che nascono dietro le sbarre tra Roma, Padova e Napoli, solo per citare alcune esperienze. Il Caffè Galeotto è prodotto all’interno dell’'istituto penitenziario Rebibbia Nuovo Complesso, nel carcere di Padova la pasticceria Giotto produce ogni giorno dal 2005 panettoni, colombe, veneziane, biscotti. I ragazzi dell’Istituto per minori Nisida a Napoli realizzano il “ciortino”, un biscotto portafortuna (non a caso è a forma di cornetto scaramantico e “ciorta” in napoletano vuol dire proprio sorte).

I prodotti “made in carcere” non sono destinati alla grande distribuzione, ma il Ministero della Giustizia offre una vetrina on line per conoscere le creazioni dei detenuti e dove acquistarli.

Dietro le sbarre, però, nascono anche progetti educativi che fanno leva sui valori dello sport. Come quello che la regista Enza Negroni ha documentato nel film La prima meta, che sarà presentato giovedì 16 marzo allo Sguardi Altrove Film Festival in corso a Milano fino a domenica 19. Protagonisti della pellicola sono i 40 detenuti di nazionalità diverse, italiani e stranieri con pene da 4 anni all’ergastolo, della Giallo Dozza, la squadra di rugby nata dal progetto educativo “Tornare in campo” della Casa Circondariale della Dozza di Bologna, coordinato da tecnici e allenatori del Rugby Bologna 1928.

"Non avevo mai varcato la soglia della cittadella della Dozza – racconta a Vita Enza Negroni – un vero e proprio microcosmo, inserito nella città di Bologna; vista da fuori l'impressione è che non accada nulla e il tempo sia sospeso. Immergermi, in questa nuova dimensione, mi ha portato a conoscere e poter raccontare con la macchina da presa in mano a Roberto Cimatti, l'attività sportiva del rugby, con i suoi valori, come la lealtà, il rispetto, la generosità, il sacrificio e l'altruismo messi in campo, dai detenuti”.

Nessuno, prima di entrare nella squadra, aveva mai giocato a rugby. Non si conoscevano, ma hanno imparato a stare insieme in un’unica sezione del carcere, la 1D. Dalla stagione sportiva 2014-2015, la squadra disputa il campionato nazionale F.I.R. di Serie C2.

“Insieme a loro – continua Negroni – ho imparato le regole del rugby, mettendomi in gioco in una vera palestra di vita, con un progetto educativo ed innovativo, in una condizione di emarginazione. Il rapporto instaurato con l'allenatore Max e i giocatori, è cresciuto con il tempo, alcuni di loro sono usciti, altri sono ancora all'interno, il mio pensiero va a loro che ogni sabato si mettono in campo per vincere una partita e avere quel riscatto che fa crescere in loro il senso di dignità".

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