Welfare
Macro@work: come affrontare la malattia cronica nei contesti lavorativi
Lo studio empirico del Centro di Ricerca della Fondazione Lavoroperlapersona che ha coinvolto manager, lavoratori, HR: fra le barriere più frequenti (e con particolare riguardo a telelavoro e/o smartworking), c’è da osservare che i capi non sempre hanno chiaro il quadro normativo all’interno del quale devono muoversi
di Asmae Dachan
L’emergenza Covid19 ha riportato la questione della malattia, socialmente considerata quasi un tabù, al centro del dibattito pubblico. Parlare di malattia non è mai facile. La persona colpita da una patologia, per diverse ragioni, tra cui il timore di essere discriminata, tiene spesso per sé le informazioni legate alle sue condizioni di salute e anche la legge sulla Privacy dedica una particolare attenzione a questi dati, considerati sensibili.
Conoscere la malattia di una persona può però diventare importante per aiutare la stessa a vivere meglio, ad avere alcune tutele e a far capire a chi le sta intorno come comportarsi, soprattutto se il contesto è quello di un luogo di lavoro. Il Centro di Ricerca della Fondazione Lavoroperlapersona ha avviato uno studio empirico di ampia portata, proprio sul tema dei malati cronici al lavoro. Macro@Work, così si chiama la ricerca, nasce con l’obiettivo di creare un osservatorio che aiuti le organizzazioni a comprendere meglio le aspettative dei collaboratori affetti da malattie croniche e a rimuovere gli ostacoli che questi ultimi spesso si trovano a fronteggiare sul lavoro. L’incidenza dei collaboratori con patologie croniche è significativa e tenderà ad aumentare ulteriormente nel prossimo futuro, con implicazioni rilevanti sul mercato del lavoro e sulla gestione aziendale. I risultati di questa ricerca si riferiscono ad un campione di 6.462 persone che lavorano in una grande multinazionale italiana dell’energia.
“Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, una delle sfide più importanti che i sistemi sanitari dovranno affrontare nel secolo in corso è rappresentata dal peso crescente delle malattie croniche (WHO, 2008)”, afferma Gabriele Gabrielli, presidente della Fondazione Lavoroperlapersona e docente di Organizzazione e gestione delle risorse umane all’Università LUISS Guido Carli. “Questo lavoro intende esplicitare l'impegno della Fondazione Lavoroperlapersona per assicurare il proprio contributo sulla strada del conseguimento dell'obiettivo 8, Decent Work and Economic Growth, dell'agenda 2030 delle Nazioni Unite, che ha individuato 17 Sustainable Development Goals. In particolare, questo lavoro empirico – si legge nel Rapporto di Ricerca scaricabile liberamente all’indirizzo www.ricerca.lavoroperlapersona.it, intercetta i bisogni di una delle categorie più fragili, i lavoratori malati cronici, individuando le aree di intervento culturale, organizzativo ed educativo per migliorare le loro condizioni di lavoro” aggiunge Gabrielli.
A condurre la ricerca, insieme a Gabrielli, tre donne, membri del comitato scientifico del Centro di Ricerca Lavoroperlapersona: Laura Innocenti, lecturer all’Università LUISS Guido Carli, consulente e formatrice, Silvia Profili, Professoressa Ordinaria di Organizzazione e gestione delle risorse umane presso l’Università Europea di Roma e Alessia Samarra, Professoressa Ordinaria di Organizzazione Aziendale presso l’Università dell’Aquila.
Intervenendo all’evento exploring eLearning2020 organizzato da Skilla Alessia Samarra ha illustrato i risultati della ricerca, affermando che spesso le lavoratrici e i lavoratori hanno “difficoltà a comunicare la propria malattia cronica in azienda perché temono ripercussioni sul loro sviluppo professionale e di essere stigmatizzati”. La ricerca ha iniziato solo da pochi anni a esplorare le implicazioni delle malattie croniche sulla vita lavorativa. Pochi studi, infatti, ha evidenziato la ricercatrice, sono stati condotti nel nostro Paese, e anche la ricerca della Fondazione Lavoroperlapersona “rappresenta solo il primo tassello di un programma di ricerca più ampio, che sarà esteso ad altre realtà organizzative e settori”.
Fra le barriere più frequenti (e con particolare riguardo a telelavoro e/o smartworking), c’è da osservare che i capi non sempre hanno chiaro il quadro normativo all’interno del quale devono muoversi e sentono spesso di non avere delle policy aziendali chiare da seguire. A volte sentono di non avere le competenze e il tempo per riuscire a implementare misure mirate in grado di rispondere alle esigenze dei collaboratori affetti da condizioni croniche.
Alcuni capi e colleghi riconoscono che la difficoltà di relazionarsi con persone malate può essere accresciuta dal fatto di incontrarle meno frequentemente. In diversi casi, i collaboratori malati – pur percependo l’utilità del telelavoro e/o smartworking – scelgono loro malgrado di non usufruirne per timore di essere “stigmatizzati” da capi e colleghi o, addirittura, di subire discriminazioni in virtù del loro ricorso a questa modalità di lavoro flessibile. Sovente, la percezione di “essere messi da parte” è particolarmente sentita da coloro che, per i vincoli legati alla propria malattia, hanno optato per il telelavoro. La flessibilità, cioè, è vissuta talvolta come ‘stigma’ ed ‘esclusione’. La difficoltà a gestire tale condizione – come si legge nel Rapporto di Ricerca – emerge anche dai commenti espressi da alcuni capi e colleghi, che ammettono la difficoltà “a fare squadra” e “a fare affidamento” su chi non è sempre presente in ufficio.
“Certamente nei confronti delle persone malate deve crescere, da parte dell’organizzazione, la capacità di ascolto e di identificazione dei bisogni che insorgono con il manifestarsi e l’evolversi della malattia” afferma Laura Innocenti commentando la ricerca. “Dai nostri dati, infatti, è emerso che le persone malate, in molti casi, preferiscono non condividere le informazioni sul proprio stato di salute con i propri capi, colleghi o HR business partner, un fenomeno già rilevato anche in alcuni studi condotti in altri contesti organizzativi e Paesi. È essenziale, dunque, promuovere iniziative di sensibilizzazione per consolidare una cultura inclusiva che aiuti le persone malate a condividere il proprio status, anche attraverso la creazione di specifiche figure di counselor interno”.
Dalla ricerca emerge, inoltre, che lavorare in un ambiente inclusivo aiuta le persone malate a ridurre lo stress. Nella percezione dei dipendenti malati cresce l’importanza attribuita al work-life balance e alla sicurezza del posto di lavoro, ma anche alla possibilità di svolgere un lavoro che offra occasioni di soddisfazione.
Sentirsi supportati da capi e colleghi, evidenzia la ricerca, rappresenta un’importante risorsa per quanti si trovano ad affrontare un periodo, talvolta particolarmente lungo, di fragilità fisica e psicologica.
Particolare attenzione, dunque, va posta nei riguardi degli interventi possibili. Tra questi, ha argomentato Silvia Profili, “quelli che consentono di accrescere la flessibilità e di adattare il lavoro alle mutate esigenze/capacità del lavoratore sono gli strumenti più frequentemente utilizzati per favorire l’inclusione e l’employability dei collaboratori affetti da patologie croniche, ma l’implementazione di queste misure deve essere “su misura” per risultare efficace”.
In conclusione, permane una diffusa resistenza a condividere informazioni sul proprio stato di salute: quasi 2 lavoratori malati cronici su 10 hanno timore a rivelare la propria patologia nel contesto di lavoro. Silvia Profili tra le raccomandazioni conclusive ricorda che “bisogna dare voce ai malati cronici, adottare strumenti di flessibilità, fare tanta formazione sistemica e sensibilizzazione".
Per scaricare la ricerca clicca qui
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