Welfare

Macchè cultura

di Flaviano Zandonai

Due indizi fanno una prova. Si dice così giusto? E allora possiamo sostenere con ragionevole certezza che la competizione “Che Fare” non è, come recita il suo sottotitolo, un “premio per la cultura” ma qualcosa di diverso. Già il vincitore della prima edizione – Liberos – aveva posto qualche dubbio in tal senso, anche il network tra produzione letteraria, artigianato editoriale e comunità dei lettori aveva “ammantato” di culturale l’iniziativa. Ma nel caso del trionfatore di questa edizione – Di casa in casa – non vi è proprio dubbio. Che fare è una competizione sull’innovazione sociale che premia iniziative comunitarie rigorosamente bottom up.


Può sembrare una questione da prima l’uovo o la gallina, ma non è così. O almeno non lo è del tutto. È chiaro infatti che la produzione culturale rappresenta un acceleratore di processi di aggregazione sociale, perché agisce sulla leva del senso producendo significati e indicando direzioni. Un aspetto tutt’altro che scontato in una fase in cui le radici lunghe del comunitarismo sono, più o meno, essiccate. D’altro canto la cultura in sè fatica a porsi come motore di sviluppo economico e di consolidamento sociale con buona pace dei molti “petrolieri” nostrani, quelli che cioè si ostinano a sostenere con una metafora non proprio felicissima che la cultura è il petrolio dell’Italia.
Che fare non smentisce questa visione ma piuttosto la rilancia, ampliandone i contorni e chiamando in causa anche i non specialisti. Quei soggetti che di un tessuto di produzione culturale diffuso beneficiano in modo diretto o indiretto per ampliare e innovare la loro attività. Due esempi, cosi distanti eppure così vicini: l’azienda agricola Caprai di Montefalco fa blend non solo vinicolo, ma con il contesto ambientale e sociale. E poi Wellaghi: un’idea progetto presentata in risposta ad un’altra competizione che propone di costruire un centro diurno diffuso appoggiandosi a una rete di produzione culturale localizzata. Un progetto che disintermedia il welfare classico per riarticolarlo grazie a competenze di community organizing, rendendolo più economico ed efficace. Scommettiamo che piacerebbe anche ai valutatori del nuovo bando di fondazione Cariplo?

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