Welfare

Ma sono troppibin terapia intensiva

L'allarme di Claudio Fabris, neonatologo a Torino

di Redazione

«Nell’assistenza alle donne immigrate, c’è ancora
molto da fare». Nei reparti per la cura intensiva dei neonati
un terzo sono stranieri S econdo i dati Istat, nel 2007 i parti stranieri hanno superato le 64mila unità. E anche nella speciale classifica dei primi nati, la tradizionale “competizione” del Capodanno tra gli ospedali italiani, gli immigrati sono sempre più protagonisti. Purtroppo questi bambini rappresentano anche un terzo dei neonati ricoverati in terapia intensiva. È quanto emerso nel XIV Congresso nazionale della Società italiana di neonatologia che si è svolto il maggio scorso. «Significa che, nell’assistenza alle donne immigrate, c’è ancora molto da fare». Parola di Claudio Fabris, direttore della Neonatologia universitaria dell’ospedale Sant’Anna di Torino e presidente Sin.

Vita: Qual è nel capoluogo piemontese l’incidenza della natalità straniera?
Claudio Fabris: Secondo i dati del ministero della Salute, in Piemonte, il 15,3% delle mamme proviene da Paesi esteri. Nel 2007 al Sant’Anna, su 4.700 parti complessivi, il 21,5% ha riguardato bambini stranieri. Al momento, per il 2008, siamo a quota 20,7%.
Vita: L’aumento di immigrate ha portato cambiamenti nei reparti di ostetricia?
Fabris: Nulla di veramente sostanziale. Torino è sempre stata una città d’immigrazione: negli anni 70 venivano gli italiani del Meridione, oggi, vengono da tutto il mondo. Non a caso, nelle strutture ospedaliere più grandi il mediatore culturale è ormai una figura professionale “di ruolo”, abitualmente prevista in organico. Mentre le più piccole si avvalgono di consulenze temporanee.
Vita: E per voi medici?
Fabris: Le culture di queste donne sono forse diverse dalla nostra e al personale ospedaliero è richiesto uno sforzo maggiore sia in termini di comunicazione che di formazione. Ma quando arrivano da noi, le mamme hanno tutte uno stesso desiderio: sentirsi accolte, seguite, protette nella loro condizione di gravidanza, un desiderio che, ieri come oggi, non fa distinzioni di lingua o di nazionalità. Ed è innanzitutto questo il bisogno a cui dobbiamo e vogliamo rispondere.

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