Formazione

Ma quali privilegi, siamo le scuole nate dal basso

Inchiesta su un universo profondamente cambiato in questi ultimi anni

di Redazione

Compie dieci anni la legge del governo D’Alema che definiva la funzione pubblica dell’istruzione privata. Oggi gli istituti sono 13mila e sono frequentati da un milione di studenti. E rivendicano un’identità fuori dai vecchi schemi
Esattamente nel marzo di dieci anni fa, durante il governo D’Alema, veniva approvata la legge 62/2000 con le «Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione». La legge definiva i requisiti per il riconoscimento delle scuole paritarie, gestite dagli enti locali o da soggetti privati, e la loro funzione pubblica. Non più quindi istituti pubblici (cioè statali, con una accezione che tende a confondere i due termini) da una parte, e privati, dall’altra, ma un unico sistema nazionale di istruzione pubblica (cioè di tutti) a cui contribuiscono scuole statali e paritarie. Quanto sia stato recepito un tale cambiamento – e se lo sia stato anche nella sostanza – è tutto da verificare.
Per fare un esempio, in un’indagine dell’Ufficio scolastico regionale dell’Emilia Romagna condotta nel 2009 tra insegnanti di Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia, Lazio e Calabria, il 71% dei docenti di scuola statale intervistati ha espresso un giudizio fortemente critico verso la parità, colpevole secondo loro di sottrarre risorse agli istituti dello Stato. Il contrario di quanto lamentano i gestori delle paritarie, i quali affermano che l’introduzione della parità scolastica in termini giuridici non è stata accompagnata da una analoga equiparazione dal punto di vista economico.
«La parità ci porta una goccia di contributo», sottolinea Sabino Pavone, vicepresidente della Federazione scuole Steiner – Waldorf in Italia, «e questa voce incide sul bilancio delle nostre scuole al massimo per il 10%. Ad esempio, degli 800mila euro necessari per la gestione di una struttura con 230 allievi, dallo Stato riceviamo sì e no 80mila euro. Il resto è tutto a carico dei genitori i quali pagano già le tasse per iscrivere i loro figli a una scuola statale di cui non usufruiscono».
Gli istituti paritari nel nostro Paese sono 13mila (il 21,7% del totale) e sono frequentati da circa un milione di studenti, cioè da un decimo di tutti gli alunni italiani. Il decreto 89/09 del ministero dell’Istruzione, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 23 gennaio, sebbene non fissi l’ammontare rimandando l’indicazione dei contributi a una successiva tabella, conferma sostanzialmente per l’anno scolastico 2009/2010 le risorse stanziate in precedenza per le scuole paritarie: all’incirca 535 milioni da distribuire in base a una gerarchia che vede al primo posto le scuole dell’infanzia (il 39% sul totale) e in subordine le altre (solo il 5% delle primarie e secondarie sono paritarie). Il decreto detta anche una priorità per quegli istituti paritari «che svolgono il servizio scolastico senza fini di lucro».
Non tutte queste risorse, tuttavia, andranno alle scuole paritarie gestite da soggetti privati. Una parte, infatti, andrà alle paritarie comunali (soprattutto dell’infanzia), per una cifra che si aggira intorno ai 90 milioni di euro, il 16% del totale. «Comunque, alla fine, tutte le scuole paritarie accedono ai finanziamenti», dice Vincenzo Silvano, presidente di Cdo Opere educative, associazione a cui aderiscono 537 istituti, «ma da una parte ci sono 535 milioni riservati alle paritarie, dall’altra 57 miliardi per la scuola statale. Non siamo contro la scuola statale, il problema è che negli ultimi 50 anni è stata concepita per gli insegnanti e non per gli studenti, tant’è che il bilancio del ministero dell’Istruzione è costituito al 97% dalla voce “stipendi”».
In base a elaborazioni Censis e Ocse del 2006, lo Stato italiano spende per ogni allievo di scuola statale 6.116 euro (infanzia), 7.366 (primaria), 7.688 (secondaria di primo grado), 8.108 (secondaria di secondo grado). Nello stesso periodo, per ogni studente di scuola non statale, è stata calcolata una cifra di 584 euro (infanzia), 866 (primaria), 106 (secondaria di primo grado), 51 (secondaria di secondo grado). Il resto arriva dalle tasche dei genitori.
Ma se i conti sono questi, perché i genitori ci tengono così tanto a far andare i propri figli in una scuola non statale? In genere si tende a pensare a due ragioni: acquisto del titolo di studio nei cosiddetti “diplomifici”; scelta elitaria da parte di famiglie più che benestanti. «I “diplomifici”», spiega ancora Silvano, «sono la piaga del nostro sistema paritario, spesso aziende for profit che cambiano pelle trasformandosi in cooperative o associazioni ma che hanno come unico scopo il profitto. In realtà è una piccola parte, localizzata soprattutto al Sud, con una percentuale grosso modo dello 0,7%, visto che il fenomeno interessa specialmente le superiori». «I “diplomifici” stanno chiudendo per selezione naturale», aggiunge Leone Soued, presidente della Comunità ebraica di Milano che gestisce un intero ciclo scolastico, dal nido fino al liceo, per un totale di 550 alunni. «Con il progressivo impoverimento del ceto medio, sono sempre meno le famiglie disposte a spendere soldi per mantenere agli studi figli demotivati».
Che i cambiamenti nel tessuto sociale ed economico abbiano influito nel ridisegnare un’utenza diversa degli istituti a gestione privata, lo conferma anche Roberto Zecca, amministratore delegato della Fondazione Romano Guardini, ente gestore del Sacro Cuore di Napoli: «Fino a 15 anni fa il nostro istituto era frequentato dai figli dell’alta borghesia, adesso si sta manifestando sempre di più l’interesse di famiglie che provengono da tutti i ceti sociali. E questo perché è cambiato totalmente il contesto. C’è uno spaesamento culturale per cui il bambino risponde male, dice le parolacce. Anche alzarsi al mattino per andare a scuola non è più scontato. E questo riguarda tutti i ceti sociali. Perfino alcuni presidi di istituti statali mandano da noi i loro figli».


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