Cultura

Ma l’Italia non l’ha fatta Garibaldi

Intevista a Franco Cardini. Dieci domande sul perché e il per come dell’Unità

di Maurizio Regosa

È la prima volta che l’Italia si ferma il 17 marzo, 150° anniversario della prima riunione (a Torino) del Parlamento nazionale. Un’occasione per commemorare un Risorgimento sul quale però il dibattito è stato polemico, confuso se non strabico: si è spesso guardato al passato proiettandovi le esigenze e i desideri del presente. Si è così finito col mettere fra parentesi le ragioni che hanno animato personaggi grandi e minori, che però in quel percorso unitario hanno creduto profondamente. Un percorso del resto pieno di contraddizioni e, per molti aspetti, non concluso. Per comprenderlo meglio abbiamo posto a un grande storico, Franco Cardini, poco conformista, dieci domande sul perché e il per come dell’Unità.

Cosa pensa delle polemiche sul 17 marzo?

Non ho nessun dubbio che il processo unitario sia stato, come tutti gli eventi della Storia, raccontato in modo epico e retorico, sottolineando i lati magari più edificanti. Si può parlare male di Garibaldi come di qualsiasi personaggio storico. Ciò premesso, è stata una polemica pretestuosa: è giusto ricordare e commemorare il Risorgimento anche con una certa solennità formale.

Che impressione le ha fatto il rogo del fantoccio di Garibaldi?

La Lega è un grande partito che pubblicamente prende posizioni spesso intemperanti e permette al suo interno posizioni anche più becere. Sono il primo a criticare gli Stati Uniti, ma non brucerei mai la bandiera simbolo di quella nazione. Bruciare la sagoma di Garibaldi è un scelta all’interno di un ritualismo collettivo folclorico. Ci si aspetterebbe una maturità maggiore nei confronti del passato. Le revisioni sono legittime, i negazionismi demenziali.

Chi ha inventato l’identità nazionale?

Non il Risorgimento. L’Italia ne aveva già una e antica: per conoscenze, lingua e per religione. Oggi è debole e contestata. Non la si rafforza certo moltiplicando le feste. Il 2 giugno basta. Certo, questa identità avrebbe potuto trovare forme differenti, rispetto alle quali certamente è possibile proporre delle riforme. In effetti, l’Italia ha rinnegato due scelte di Garibaldi: l’opzione monarchica prima, quella unitaria poi.

Quando si è sentita di più l’unità?

Se c’è stato un momento in cui si è cercato di dare un senso – non dico necessariamente il migliore – all’unità, ebbene quel momento è stato il periodo fascista. Cito il Concordato, alcune scelte in termini di politica coloniale. Certo poi sono state fatte scelte in politica internazionale che ci portarono in guerra.

Il federalismo ha le sue ragioni storiche?

L’attuale non ha nulla a che fare con quello che avrebbe potuto essere. E da questo punto di vista bene fanno i leghisti a non ricollegarsi all’Italia pre-unitaria, che pure in alcuni casi, a Modena e Parma per esempio, rappresenta un modello di buon governo. Si sono costruiti una mitologia politica. Solo in Veneto ci si riferisce a un’esperienza pre-unitaria: la Serenissima. Anche io avrei preferito una scelta federale alla Rosmini o alla Cattaneo. Non è andata come in Germania, dove si è tenuto conto delle caratteristiche nazionali. Ma Cavour non era quel Bismarck che non abbiamo mai avuto. L’Italia non ha fatto una scelta coerente con la sua tradizione policentrica. Aveva al suo interno un solo Stato unitario, ovvero il Regno delle Due Sicilie. Ma le scelte fatte debbono essere razionalizzate come tali.

Perché studiare i personaggi minori?

Non è vero che la storia la fanno i vincitori. Nella lunga durata si recuperano le ragioni dei vinti. Come è successo per la seconda guerra mondiale: oggi a livello storico se ne discute serenamente. Ha ragione De Gregori: «La storia siamo noi». Nel senso che non è fatta solo dai grandi personaggi. Per capire occorrerebbe studiare i minori. A questo proposito, mi dispiace e indigna il fatto che si metta in discussione, a causa dei tagli, la vita del Dizionario biografico degli italiani, arrivato ora alla lettera M. Si ipotizza di concluderlo con pochi, sintetici volumi. Si dovrebbe piuttosto ricominciare dalla A, uscita negli anni 50.

Chi suggerisce tra i “minori”?

Sono tanti. Metterei anche i vinti. Il padre Antonio Bresciani, su cui Gramsci ironizzava. I volontari che difesero Roma nel 1870 (e se non ci fu battaglia, fu per ordine del Papa). Il barone

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