Volontariato

Ma il terzo settore non è una corporazione

di Giulio Sensi

Del nuovo governo Renzi ti accorgi, dalla prospettiva del terzo settore, perché ti iniziano ad arrivare valanghe di comunicati stampa e comunicazioni: fiducia, appelli, auguri di buon lavoro, richieste, aspettative. 

Gli uffici comunicazione del terzo settore, o meglio gli input politici che a questi uffici arrivano, escono dalla poco fantasiosa quotidianità e si esercitano per qualche giorno in un’insolita frenesia. Forse a ragione, visto che per la prima volta il terzo settore entra così prepotentemente nei posti chiave e considerato che le aspettative e gli impegni disattesi da tempo sono molti. E visto anche che ha, almeno a parole, un ruolo così preminente nell’agenda di governo.

I motivi di ottimismo sono molti, li ha espressi efficacemente il direttore Riccardo Bonacina, e Giuliano Poletti è una delle menti più profonde, esperte e consapevoli di questo mondo. Risulta a questo punto più solido quel ponte diretto che già con il ministro Enrico Giovannini, e prima ancora con il sottosegretario Cecilia Guerra, aveva creato speranze e aspettative troppo spesso frustrate da poca ostinazione e dai dettami dell’attore chiave delle politiche sociali e del terzo settore: non il Ministero del Welfare e delle Politiche sociali, ma il Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Deve stridere però il lessico giornalistico che vuole ridurre il ruolo di Poletti alla salita in “Paradiso” di un’altra corporazione, come qualcuno ha detto “la Confindustria rossa”. Pensare al terzo settore, e ancora peggio alla cooperazione, come l’ennesima corporazione nella stanza dei bottoni pronta a solidificare ancora di più il proprio potere economico, sarebbe un errore.

Certamente un errore a cui il terzo settore stesso si è prestato troppe volte, guardando allo specchio troppo i suoi muscoli, nemmeno troppo sodi, più che le idee. E che lo rinchiude inesorabilmente in uno steccato ormai vecchio, peraltro superato anche sul campo da approcci ben diversi che puntano sui valori del terzo settore stesso (ma non dovevamo smettere di chiamarlo così?) per liberare tutta l’economia e la società dalle crisi che le attanagliano.

Ben venga quindi l’orgoglio del terzo settore di ritrovarsi nella stanza dei bottoni perché è costato decenni di lavoro e di fatiche -se generalizzare è possibile-, ma se viene letto, pensato e giocato, in chiave corporativa, beh allora sarà un’altra sconfitta.

 

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