Riccardo Bonacina sprona il terzo settore a darsi una mossa: che fatica chiamarlo ancora così, per differenziazione fra Stato e mercato o per sottrazione fra profit e non profit. La domanda che ci poniamo è la seguente: ma in fondo i tempi non sarebbero maturi per riconoscere quello che fino ad oggi è stato chiamato terzo settore come parte integrante del nostro Paese ed abbattere certe barriere che, peraltro, sul campo già molti hanno superato? Certo, devono essere preservati alcuni valori e principi, non possiamo buttare seppur robusti agnelli nella tana dei lupi dell’economia di mercato, ma qualche passetto avanti andrebbe fatto.
Anche perché di ragioni il cosiddetto profit e il cosiddetto non profit ne hanno in condivisione a valanga. La Cgia di Mestre frena giustamente il cauto ottimismo sulle varie riprese, ricordandoci che il tessuto economico italiano è fatto soprattutto e sempre più di piccole e medie imprese e che per loro ormai sopravvivere è appunto un’impresa. Il carico fiscale di chi fa le cose in regole oscilla fra il 53% e il 63%. La crescita in questo caso è dovuta soprattutto all’aumento dei contributi previdenziali e all’Imu e alla Tares. È un po’ una fotografia dell’Italia: mentre si cerca di alleggerire, di poco, la pressione su un reddito in caduta libera spuntano le batoste su altri aspetti della quotidianità dell’impresa.
Tanto che oggi una grande percentuale di imprese non fa più profitti, non crea più reddito, non arricchisce più i padroni, ma risponde soprattutto e con sempre più fatica e sacrificio ad una funzione sociale: dare un qualche salario ai lavoratori dipendenti o autonomi e far andare avanti le loro famiglie, con enorme sacrificio dei titolari il cui stipendio diventa un premio una tantum. I padroni insomma, se la passano peggio di prima. Con le molte eccezioni, naturalmente.
Prima il problema era l’ingresso a vele spiegate del terzo settore nel mondo profit, oggi diventa paradossalmente il contrario: il profit è sempre più non profit o molto poco profit. O meglio: concentra sempre di più il reddito in poche grandi imprese forti anche sul mercato internazionale.
È lecito chiedersi quali regole, quali forme di tassazione dovrebbero essere riconosciute a chi assolve alla funzione sociale di dare lavoro, magari anche un lavoro utile a tutti. Si aprono lenzuolate di discussioni, decenni di sfide, querelle accademiche per dare un senso ad una ricerca sempre più in ritardo, incapace di fotografare le trasformazioni e rendersi utile. E centrale, ovviamente, una di queste sfide: quella dell’impresa sociale.
A noi rimane, per ora, l’epifania di una domanda anche bruttina e con molte ripetizioni. Quella del titolo di questo post.
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