Welfare
Ma il nostro scopo è il potere o la bellezza?
Terzo o non più Terzo. Il non profit e la politica. Intervista a Giorgio Vittadini
P er capire la dimensione più vera di Giorgio Vittadini bisogna immaginarlo una volta al mese in viaggio verso una provincia del nord Italia per andare a trovare quello che lui chiama «il suo amico ergastolano». Nell?agenda fittissima di Vittadini, questo è un appuntamento inderogabile. Non è solo una faccenda di solidarietà umana, di passione per un tema, quello del carcere, cui ha sempre dedicato attenzione («E davvero l?ultima frontiera. Nessuno ci presta attenzione. Lì non conta neanche la 626?»). è una questione di amicizia. «La sua parabola è umanamente impressionante. Ha commesso gravi errori, non nasconde nulla delle sue colpe, ma oggi cerca un appiglio a cui attaccarsi da cui ricominciare. In un certo senso guarda alla società con una speranza. E io mi chiedo: ma questo non è il senso dell?azione sociale? Costruire cammini di positività anche sui terreni più difficili e più dimenticati».
Con Giorgio Vittadini siamo venuti a parlare proprio di questo. Del sociale che invece sembra aver riposto tutte le speranze nella politica. Il dibattito lanciato dalle colonne di Vita gli sembra toccare una «questione decisiva». Dice: «Ha ragione Johnny Dotti. Non lo conosco, ma sono grato per il suo coraggio».
Vita: Cominciamo proprio dalla questione più radicale posta da Dotti: «Dov?è il terzo settore? L?afasia è del nostro mondo o dei suoi leader?». Lei come risponde?
Giorgio Vittadini: Innanzitutto dico che non ho soluzioni in tasca. In secondo luogo sono convinto che la questione sia soprattutto una questione antropologica. Cioè qual è l?io da cui si origina l?azione sociale. Per me quell?azione ha a che fare intrinsecamente con il desiderio, con il mio desiderio di bellezza e di giustizia. Fare il sociale significa sperare nella positività della vita, avere fiducia nella storia, in questo uomo che sa generare e costruire. E quindi ha la sensibilità e l?intelligenza per rispondere ai bisogni.
Vita: E se questo viene a mancare?
Vittadini: Allora vince la politica. E non solo la politica dei partiti, ma anche quella con cui si concepisce la propria presenza dentro le formazioni del sociale. Vince un atteggiamento politico, in cui contano gli equilibrismi e non la verità e la ragione di quello che si sta facendo. E tutto questo avviene proprio nel momento in cui, paradossalmente, la politica non ha più nulla da dire. La sinistra ha sposato la parte più radicale di se stessa, la destra invece ha cercato solo il demiurgo. La sinistra ha assorbito tutta la crisi borghese, la destra si crogiola nell?illusione neocon di rifare vivere un passato che è morto da 50 anni. Mi chiedo che cosa ci guadagni il sociale a farsi cooptare da una politica così?
Vita: Lo chiedo a lei?
Vittadini: Temo che il bipolarismo politico abbia vinto nel sociale, diventando bipolarismo culturale. Su questo si è innestata anche la crisi del cattolicesimo, che si è spezzato politicamente, andando di qua e di là. Il risultato è una debolezza complessiva e una subordinazione alla politica come fattore di soluzione dei problemi. Questo è il peccato di origine.
Vita: Il dibattito lanciato dalle nostre colonne prende avvio dalla discesa in campo nel Pd di molte personalità, anche con ruoli di rappresentanza, del terzo settore. Anche a lei spesso è successo di vedere suoi amici fare il passaggio dal sociale alla politica, pur nello schieramento opposto. La dinamica è la stessa?
Vittadini: Premetto che in generale non sono entusiasta a priori davanti a scelte di questo tipo. Credo che il problema stia alla radice. E? il gusto per quello che si sta facendo la prima garanzia a non cedere alle lusinghe della politica. E per gusto intendo la corrispondenza tra quello che si fa e il proprio desiderio di felicità. A volte accade che uno vada in politica perché ha perso questo gusto, perché non ne può più di quello che sta facendo: in un certo senso la politica ti prende ?da dentro?. Certo, vanno sempre rispettate le vocazione personali e uno, per esempio, può anche concepire la propria azione nei partiti come servizio: in questo caso non certo difendendo solo gli interessi della parte da cui viene, ma garantendo la libertà di tutti, cioè difendendo la sussidiarietà e la sua applicazione. In diversi casi che conosco è accaduto, ma temo che, in generale, la politica di oggi, così blindata dai partiti, non permetta molto di sviluppare una simile idea di ?servizio?.
Vita: Non può valere come discorso anche per chi si schiera nel Pd?
Vittadini: Non voglio farne una questione di schieramenti, ma mi sembra che finora questa sia un?operazione molto verticistica. Del resto lo è anche quella che, sul fronte opposto, è stata messa in movimento dai Circoli della libertà. Il Pd, se concepito come operazione che nasce dall?alto, rischia di essere un partito onnivoro, che ingloba tutto al suo interno, rappresentanze comprese. E? il contrario di quello di cui ci sarebbe bisogno: un partito leggero che lasci libertà di movimento al sociale. Se così avvenisse, chi non fosse dentro non esisterebbe e le reti di rappresentanza costruite con tanta pazienza si dissolverebbero, avendo come compenso la ribalta di qualche comparsata nei talk show televisivi? Francamente non mi interessa.
Vita: Anche lei soffia sul fuoco dell?antipolitica?
Vittadini: Nient?affatto. La trovo ancora più pericolosa della politica stessa, perché dietro il suo irenismo sarebbe da ingenui non vedere un disegno politico. Gli esempi in questi mesi recenti si sprecano. Io non sono affatto per l?antipolitica. Io sono per un bipolarismo mite.
Vita: Cioè?
Vittadini: Cioè, trovare terreni di confronto e di costruzione positiva in cui coinvolgere i tanti che oggi sono senza rete ma che hanno molte cose da dire e da proporre per il bene comune.
Vita: E il sociale potrebbe essere traino di un progetto così?
Vittadini: Sarebbe bello. Ma torniamo alla questione da cui siamo partiti. Cioè la questione dell?identità. Perché faccio quello che sto facendo? Lo sto facendo per la bellezza o per il potere? E badate che il potere non è solo quello della politica ma anche la difesa del tuo fazzoletto?
Vita: Si torna sempre a quel punto. Ma quale può essere una garanzia da questo rischio di prevaricazione?
Vittadini: Ce n?è una sola. La coscienza umile di chi sa che per quanto bene faccia non risolverà mai il problema. Le opere infatti non vanno concepite come soluzione, ma come esempio. L?opera non può nascere con la pretesa di risolvere la realtà, ma può solo mettere in movimento delle energie positive grazie alle quali altri uomini si mettono in cammino e colgono una speranza concreta per la propria vita. Oserei dire che alla radice di tutto ci sta la coscienza dell?errore, come mi testimonia il mio amico in carcere. Vent?anni fa Giovanni Testori aveva detto bene: bisogna che la coscienza del male diventi fattore sociale. Solo quella coscienza ci fa umili e consapevoli dei nostri limiti. Questo è un buon punto di ripartenza, perché ti permette di avere quella pazienza a cui invece la pretesa del potere brucia ogni spazio.
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