100 risposte semplici a 100 domande difficili

Ma i disabili fanno sesso?

Il nuovo libro di Iacopo Melio affronta tante tematiche legate al mondo della disabilità, a partire dalle relazioni affettive e sessuali per arrivare agli stereotipi e al pietismo, nemici giurati della società dell'inclusione. La via più semplice per raggiungerl, scrive Melio, è pensare la disabilità come una «possibile condizione universale»

di Nicla Panciera

«Molto spesso il nostro Paese vive la sessualità come un tabù, figuriamoci se associata a un altro tema come quello della disabilità, già di per sé ricco di stereotipi e pregiudizi!». Ecco in due parole descritto l’atteggiamento che complica così tanto la vita ai disabili, ma non solo a loro. Le usa Iacopo Melio, giornalista, comunicatore e consigliere regionale della Toscana, che nel suo «Ma i disabili fanno sesso? 100 risposte semplici a 100 domande difficili», nuovo titolo in uscita per Erickson, cerca di affrontare con poche incisive parole alcune tematiche attualissime legate alle definizioni e al linguaggio, alla cultura, all’ironia e all’inclusione, alla sessualità e all’affettività, alla scuola e al lavoro, ai pregiudizi e ai luoghi comuni che interessano il mondo delle disabilità. Una sorta di manuale fatto di domande e risposte, che fornisce ai lettori più naive strumenti concettuali utili a capire che una cultura fatta di pietismo e di pregiudizi spesso inconsapevoli è il più grande ostacolo all’inclusione.

A proposito della sfera sessuale, «in questo caso la società tende spessissimo a considerare (erroneamente) le persone con disabilità come «asessuate», o comunque prive di un interesse sessuale se non addirittura incapaci di attrarre le altre persone, marginalizzando quindi il loro diritto alla sessualità» scrive Melio, quando invece come tutte le persone anche «i disabili non sono asessuati o incapaci di avere desideri, pulsioni, relazioni romantiche o sessuali, né sono impossibilitati ad attrarre altri individui non disabili secondo gusti personali». Nel raccontare alcune difficoltà al soddisfacimento dei propri bisogni affettivi e fisici, come quelle di chi ha bisogno di assistenza o di chi in caso di rottura o divorzio si trova a dover riorganizzare non solo i sentimenti ma anche molti aspetti pratici della propria esistenza, l’autore invita i lettori a superare una volta per tutte altri stereotipi altrettanto diffusi, come quello della sindrome della crocerossina, di cui cadrebbe vittima chi si prende cura del partner disabile, oppure quello di chi «considera le persone con disabilità come oggetti di desiderio per il loro essere diverse».

Più in generale, «pietismo, compassione e sensazionalismo sono i tre atteggiamenti più deleteri che ci possano essere verso la disabilità» ribadisce più volte l’autore, aggiungendone un quarto, che è l’infantilizzazione. Un altro aspetto cruciale, che non riguarda il solo mondo della disabilità, è quello di non dimenticare che la questione linguistica è anche di giustizia sociale e, quindi, «le parole sbagliate riguardanti la disabilità alimentano comportamenti sbagliati, creando così dei fatti sbagliati (culturali, come pregiudizi o stereotipi, ma anche pratici, come le barriere architettoniche), alimentando ugualmente stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni». Guai alla discriminazione al contrario, quella di chi «in modo pietistico e compassionevole», dice Melio, accetta e alimenta una disparità di trattamento attraverso un atteggiamento permissivo. Basta pensare «poverino!».

Oltre ai messaggi sbagliati veicolati e rafforzati da un certo linguaggio, Melio ci parla dei diritti riconosciuti e considerati fondamentali come quello all’autodeterminazione e all’autorappresentanza, secondo il quale «i disabili devono poter esprimere e dimostrare in prima persona pensieri, opinioni, aspettative e preferenze». La loro attuazione può limitare il rischio dell’«istituzionalizzazione» dei disabili o di altre compromissioni della loro libertà di individui.

Infine, ma non per importanza, sarebbe di grande aiuto per la realizzazione di una società veramente inclusiva che tutti comprendessero che «la disabilità non deve essere percepita come una questione di nicchia ma come una possibile condizione universale», non solo perché di una rampa per carrozzine usufruiscono neonati, persone con disabilità, infortunati e anziani, ma anche perché «ci sarà sempre un momento in cui non si sa fare qualcosa (mentre sappiamo fare altro)».

Foto di Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.

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