Non profit

Ma com’è difficile essere generosi

Fondazioni Perché in Italia non esistono i Paperon de’ Paperoni della filantropia?

di Gabriella Meroni

Ford, Rockefeller, Carnegie. Grandi capitalisti, ma anche grandi benefattori. Negli Stati Uniti è normale: giusto il tempo di mettere via qualche milione di dollari, e il magnate si sente in dovere di spenderne almeno un po? a favore degli altri. Per farlo, allora, costituisce una fondazione, la dota di un capitale, e si dedica a cause di pubblico servizio: edifica ospedali e università, finanzia progetti umanitari e ricerche scientifiche. È così dall?inizio del secolo, ma la tendenza è tuttora in corso, e più viva che mai: ultimo, clamoroso esempio, quello del finanziere George Soros, plurimiliardario americano di origine ungherese che lo scorso anno ha elargito nel mondo la bellezza di 360 milioni di dollari, superando addirittura in qualche caso gli aiuti alla cooperazione internazionale stanziati dagli Usa. E che dire del Memorial Fund in onore della principessa Diana, una fondazione che in un mese ha raggranellato più di 20 miliardi di lire da devolvere ad associazioni benefiche? Lo strumento della fondazione è senza dubbio il canale privilegiato di finanziamento e realizzazione di opere non profit nel mondo anglosassone, tanto da costituire in quei Paesi la vera ossatura del Terzo Settore. Uno sguardo alle opere realizzate da questi Paperoni della solidarietà fa capire quanto il loro ruolo sia significativo: George Soros, memore di quando arrivò negli Stati Uniti con documenti falsi per sfuggire al nazismo, sostiene con 50 milioni di dollari l?anno un fondo che aiuta gli immigrati a ottenere la cittadinanza. Inoltre, con donazioni (15 milioni di dollari) a comunità di recupero che si oppongono alle politiche proibizioniste del governo, è riuscito perfino a far riaprire il dibattito sulla liberalizzazione delle droghe leggere. Pure Bill Gates, l?uomo più ricco degli Usa, ha recentemente messo mano al portafoglio creando una fondazione intitolata a sé e alla moglie Melinda: fornisce (valore 200 milioni di dollari) di computer le biblioteche pubbliche dei piccoli centri. Ma anche Ted Turner appartiene di diritto alla classifica dei buoni, con la sua donazione record di un miliardo di dollari destinati a progetti Onu sparsi per il pianeta. E l?elenco potrebbe continuare con i signori Hewlett e Packard (fondatori dell?omonimo colosso informatico), generosi sostenitori di programmi di ricerca scientifica (quasi 200 miliardi di lire distribuiti in un anno). Mille le fondazioni italiane In Italia, secondo uno studio della Fondazione Agnelli, esistono circa mille fondazioni private. Ma non c?è dubbio che qui il panorama sia un po? diverso. E che il ruolo delle fondazioni sia ridotto, se non marginale: l?ossatura del Terzo Settore italiano è costituita infatti non dalle fondazioni, ma da un altro tipo di organizzazioni: le associazioni. Cosa determina questa sostanziale differenza? Ragioni culturali, di tradizione cattolica e mutualistica innanzitutto, spiegano la prevalenza del modello associativo in Italia. Ma c?è dell?altro. Il proprietario della Timberland, Nathan Swartz ha dato vita da qualche anno a una fondazione che si dedica a opere di pubblica utilità. Da pochi mesi la Nathan Swartz Foundation ha aperto una sede anche nella nostra penisola. Ma non in Italia. «Abbiamo scelto la Repubblica di San Marino per evitare le complicazioni della burocrazia italiana», spiega la responsabile della fondazione, Marta Longo. «In Italia ci vogliono almeno due anni per per ottenere la personalità giuridica. Un tempo insostenibile. Quando gli Swartz l?hanno saputo non ci volevano credere. Per loro, abituati all?agilità del sistema americano, era inconcepibile». Le fondazioni private italiane devono infatti fare i conti con uno Stato che non le incentiva e che, prima di concedere loro, riconoscendole ufficialmente, la possibilità di agire in prima persona, compie una serie di accertamenti per verificare la provenienza del capitale, gli scopi dell?azione, i mezzi per realizzarli. Così molte fondazioni nascono e operano molto prima di essere riconosciute dallo stato. Mentre molte altre, probabilmente, non vedono neppure la luce. «Il nostro sistema è basato sul sospetto» afferma Davide Guzzi, commercialista e autore del volume Le fondazioni, perché crearle e come gestirle. «È come se lo Stato non si fidasse di chi vuole donare i propri soldi a scopi benefici, ed entrasse nel merito delle sue motivazioni. Invece di ringraziarlo, gli chiede ?perché lo fai??. Questo scoraggia i privati dal costituire le fondazioni. Mettiamoci nei panni di un ricco signore, magari un po? anziano, che volesse fare del bene prima di morire. Davanti a tante complicazioni è normale che si chieda chi glielo fa fare». Ancora una volta, lo Stato dovrebbe dunque fare un passo indietro rispetto alla libera iniziativa dei privati nel campo sociale. Ciononostante, comunque, i dati della Fondazione Agnelli mostrano che le fondazioni italiane continuano a crescere: ben il 53% di loro, infatti, ha meno di 10 anni. Segno che il settore possiede una notevole vitalità, pronta a esplodere non appena le condizioni generali glielo permetteranno. Donazioni deducibili? Sì, grazie Qualche novità, in effetti, sembra essere in dirittura d?arrivo. Il decreto legge sul regime fiscale delle Onlus, che dovrebbe essere finalmente approvato dal governo entro la fine di novembre, prevede infatti alcuni sgravi fiscali sulle donazioni a enti non profit: per i privati saranno deducibili somme fino a 4 milioni e le imprese potranno donare fino al 2% dei redditi dichiarati. Un punto chiave, quello della deducibilità delle donazioni, che permetterebbe anche alle fondazioni di vedere crescere il proprio capitale. «Il problema della deducibilità costituisce la vera differenza tra l?Italia e gli altri Paesi» afferma Lida Castelli, reponsabile della fondazione Franco Moschino nata nel luglio 1995. «Per noi, che doniamo alla fondazione parte dei proventi dell?azienda Moschino, la mancata detrazione è penalizzante, perché ci costringe a donare circa la metà di ciò che potremmo dare se non ci fossero le tasse. Certo, il 2% è pochissimo, se paragonato al 90% del mondo anglosassone». Proprio le alte percentuali di detrazione, dicono le fondazioni, potrebbero essere senz?altro un incentivo non indifferente per gli eventuali donatori. Se è vero infatti che nessuno può scrutare i cuori dei generosi, è però lecito chiedersi se George Soros o Ted Turner avrebbero speso gli stessi soldi senza poterli sottrarre dal severissimo fisco americano. Ragioni culturali a parte, quindi, le fondazioni italiane attendono un segnale concreto dal governo. Per cominciare davvero. ? Fondazione Nathan Swartz Costituita nel novembre 1995 col patrocinio della Repubblica di San Marino, è sponsorizzata da Timberland Europe. Mira a formare giovani dai 18 ai 25 anni in programmi di impegno sociale (assistenza ad anziani e portatori di handicap, servizi ecologici). I volontari hanno un rimborso di 700 mila lire al mese. Per informazioni, 02/76006622. Fondazione Franco Moschino Nata nel luglio 1995, è tuttora in attesa di riconoscimento ufficiale. Attiva nel campo della prevenzione e la terapia dell?Aids pediatrico, la Fondazione organizza ogni anno in Italia soggiorni estivi per bambini immunodepressi (vacanze Smile), e sostiene diversi progetti per piccoli malati di Aids in Romania. Tra questi, la ristrutturazione della day-clinic di Craiova e la fornitura di prodotti farmaceutici per l?orfanotrofio di Vidra. Per informazioni, 02/784734. Fondazione George Soros Soros cominciò ad occuparsi di beneficenza in seguito a una grave crisi personale, attraverso una serie di fondazioni da lui istituite nel 1987. Oggi destina ad attività filantropiche – nel campo dell?immigrazione, prevenzione del crimine, tossicodipendenza, ricerca scientifica, sostegno a Paesi in via di sviluppo – circa la metà degli utili del suo impero finanziario, valutati intorno ai 700 milioni di dollari. La sede della fondazione a New York risponde allo 001/212/8870600. L?opinione di Stefano Zamagni Le ragioni della prevalenza in Italia del modello associativo rispetto a quello delle fondazioni sono innanzitutto di natura culturale. La filantropia è una virtù civile che nel nostro Paese, a differenza che negli Stati Uniti, non ha mai trovato spazio. In Italia, infatti, è presente una economia di mercato, ma non una società di mercato: la distinzione è fondamentale, perché ciò significa che da noi l?economia di mercato si muove all?interno del mercato stesso, mentre le relazioni sociali sono regolate da logiche diverse da quelle di mercato. Ecco perché il ruolo del filantropo, cioè di colui che si muove nel contesto sociale con le stesse logiche dell?economia di mercato, come accade in America, non ha mai avuto storia. Nella sfera del sociale italiano il modello è quello dell?associazione, cioè un gruppo di persone che si mettono insieme per dare qualcosa, senza che tra esse emerga la figura prevalente di un filantropo, anche perché si teme che chi desse molto più degli altri ne potrebbe influenzare le scelte in modo antidemocratico. Detto questo, va anche specificato che comunque la tendenza alla filantropia, da cui deriva il modello delle fondazioni, è destinato a sbarcare anche in Europa, e quindi in Italia, soprattutto se non arriveremo a creare una unità europea forte. Senza Unione Europea saremo colonizzati dal modello statunitense anche in questo settore, esattamente come è avvenuto in tutti gli altri campi. Non che questo sia un male in sé, ma sarebbe un peccato perdere la pluralità che oggi caratterizza il nostro modello di società, e che caratterizza anche gran parte dell?Europa, eccezion fatta per l?Inghilterra, che essendo un Paese anglosassone assomiglia molto di più agli Stati Uniti. Per quanto riguarda il tema della deducibilità delle donazioni, considerato da molti quale incentivo per incoraggiare i contributi volontari, ribadisco che nel decreto sulle Onlus non si poteva fare di più. Le attuali soglie fissate dal decreto (per i privati donazioni deducibili fino a 4 milioni, per le imprese fino al 2% dei redditi dichiarati – ndr) sono in effetti basse, ma determinate in base a considerazioni complessive. E comunque sempre meglio così che niente, come nel regime in vigore fino ad oggi. L?esiguità delle soglie è imposta infatti dalla situazione della finanza pubblica, in base alla quale non possiamo permetterci di ridurre il gettito fiscale. Se, come tutti sperano, nel giro di due o tre anni la situazione dovesse migliorare, sarà sufficiente un semplice decreto del ministro delle Finanze per alzare le percentuali. Nel malaugurato caso in cui il deficit pubblico non dovesse invece ridursi, non si sarà comunque sprecato tempo e fatica: l?importante è aver stabilito un principio, in modo da creare uno spazio per l?aggiustamento delle aliquote. Ma a mio giudizio il punto fondamentale della questione deducibilità – e quindi del problema di far aumentare le donazioni – non risiede innanzitutto nelle soglie più o meno elevate. Tra donazioni e deducibilità, infatti, non esiste un rapporto diretto causa-effetto. Posto che l?atto della donazione sia ovviamente precedente e più importante della deducibilità fiscale, io sostengo infatti che non è la deducibilità che incoraggia la donazione. Se una persona, un potenziale donatore, non si fida di un progetto, di una fondazione, non donerà mai i suoi soldi. Tocca alle fondazioni migliorare, proponendo iniziative meritevoli, in modo da guadagnarsi i contributi dei cittadini. È su questo ribaltamento che occorre riflettere, onde evitare il rischio di credere che a maggiori detrazioni debbano per forza corrispondere maggiori donazioni. Sono pronto a scommettere che se anche un giorno si arrivasse a poter scaricare il 90% delle donazioni, queste non aumenterebbero, se dall?altra parte non si offrissero buone ragioni per donare. ?


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