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M.O. il racconto di una volontaria del Cocis da Jenin

Una persona si avvicina alla nostra macchina "avete tutto il nostro rispetto" ci dice, e si allontana piangendo. Non riusciamo neanche a rispondergli, per dirgli cosa poi?

di Redazione

Carissimi tutti, il messaggio che ho inviato qualche giorno fa ha avuto un impatto ben al di là di quanto mi aspettassi. Ho ricevuto numerosissimi messaggi da amici che non sentivo da tanto tempo, grazie a quelli di voi che lo hanno fatto circolare in modo tanto diffuso e a testimonianza di quanta voglia ci sia di sapere che cosa succede in questo brutto posto. Ve ne invio un altro, scritto con molta tristezza a chiusura di un giorno a Jenin. Come ci eravamo ripromessi siamo riusciti di nuovo ad organizzare un convoglio di aiuti umanitari, questa volta in direzione di Jenin. Le notizie che arrivano dalla città e in particolare dal campo profughi nel suo interno, sono sotto l’attenzione di tutti, o almeno di coloro che seguono con sincerità l’aggravarsi quotidiano del conflitto. Jenin è sotto il tiro dell’esercito israeliano e del coprifuoco ormai da 10 giorni. Le agenzie internazionali parlano di gravissima crisi umanitaria, non si conoscono le condizioni di vita della popolazione e quelle rarissime immagini che sono riuscite a filtrare la cortina di ferro imposta dagli israeliani ci fa pensare al peggio. Anche questa volta si parte alle 5 di mattina. Jenin è all’estremo nord della Cisgiordania, un viaggio che in un periodo normale avremmo percorso in due ore. Questa volta siamo costretti a fare continue deviazioni e procedendo lentamente dietro ai camion prevediamo di impiegare almeno 5 ore. Le organizzazioni non governative umanitarie coinvolte sono più o meno le stesse della volta scorsa, quello che è aumentato sono gli aiuti, partiamo con 5 camion e 26 jeep. Questa volta ad accompagnarci sono il Consolato italiano e l’Unione europea. Non partecipano alle trattative con l’esercito israeliano, restano indietro, pronti ad intervenire in caso di bisogno di assistenza diplomatica (anche se da queste parti molto spesso anche questa è ininfluente). Lungo la strada della valle del Giordano veniamo bloccati tre volte. Ma sempre riusciamo a passare. Finalmente raggiungiamo il posto di blocco di Jenin dal nord. Jenin è proprio sul confine. Le prime case della città si vedono perfettamente dai villaggi arabi all?interno di Israele, divisi da Jenin solo da due piccole colonie ebraiche che impediscono la contiguità territoriale. Malgrado i tanti blocchi che abbiamo trovato lungo la strada, l’attesa al posto di blocco principale prima di rientrare in Cisgiordania è relativamente breve; sarà per le notizie drammatiche che si stanno diffondendo sulla condizione della popolazione civile o meglio per l’incontro che proprio in queste ore il sottosegretario di stato americano Colin Powell sta tenendo con i responsabili delle agenzie umanitarie a Gerusalemme. L’attesa è comunque piacevole, molto diversa dalla volta scorsa, quando al posto di blocco di Nablus i coloni israeliani ci gridavano “assassini”. Qui incontriamo un gruppo di rappresentanti delle comunità palestinesi che vivono all’interno di Israele (gli arabi del 1948 come si dice qui). Sono giorni che manifestano al posto di blocco. Hanno raccolto una incredibile quantità di aiuti, alcuni sono riusciti anche a farli passare anche se gli israeliani glieli fanno lasciare appena al di là del posto di blocco e Non si sa se e come avvenga la distribuzione. Ci chiedono aiuto per trasportare le merci all’interno, si scambiano numeri di telefono e suggerimenti. Una persona si avvicina alla nostra macchina “avete tutto il nostro rispetto” ci dice, e si allontana piangendo. Non riusciamo neanche a rispondergli, per dirgli cosa poi? Siamo passati, come sempre senza giornalisti e, a differenza della volta scorsa, senza macchine fotografiche o telecamere che ci vengono confiscate. Subito dentro vediamo sulla sinistra i camion di aiuti di cui ci hanno parlato i palestinesi dell’interno di Israele. Sono tutti carichi, saranno rimasti così da quando sono entrati o sono altri? Ci resta il dubbio. Dobbiamo passare un ulteriore posto di blocco, a fianco al campo militare. Numerosi carri armati sono in deposito, i cannoni puntati verso di noi. In lontananza, vediamo altri carri armati che escono dalla città dirigendosi verso ovest. Dalla radio abbiamo la notizia che l’esercito israeliano, in risposta agli appelli al ritiro che stanno arrivando da tutto il mondo, sta occupando una serie di villaggi nei dintorni. L’ingresso alla città e molto diverso da quanto ci aspettiamo, e da quanto abbiamo visto a Nablus. Non ci sono segni maggiori di distruzione, solo qua e la’ i segni dei cingoli dei carri armati sulla strada, del resto già sterrata. Ai lati le case sembrano deserte, nessuno questa volta ci osserva dalle finestre, non c’è segno di vita, il silenzio è totale, un silenzio che sa di paura. Tutta la città è senza luce e senza acqua dal giorno dell’occupazione. Il posto dove dobbiamo depositare le merci è all’ingresso della città, dal nostro lato, e arriviamo velocemente. Il campo profughi si intravede sulla collina di fronte ma è troppo lontano per distinguere qualcosa con esattezza. Come da accordi presi con gli organizzatori del convoglio non ci allontaniamo. Qui però le persone escono dalle case, il coprifuoco non sembra rigido e percorriamo tranquillamente a piedi la distanza tra il centro di accoglienza dove portare gli aiuti e i magazzini che sono a qualche centinaio di metri. Il centro di accoglienza è in effetti una scuola. Vi sono stipati nei tre piani più di 800 persone. Senza luce e senza acqua, senza nessun sostegno. Qualche coperta buttata per terra. I nostri sono i primi materassi che arrivano. Ma la sproporzione tra il bisogno e quello che è disponibile è tale che scoppiano risse per l’accaparramento, e non c’è nessuno in grado di occuparsi della distribuzione. Ci sono donne, bambini e uomini molto anziani. Ci raccontano di essere tutti sfollati dal campo profughi. Nel campo non c’è più nessuno dei suoi 15 mila abitanti. Sono rimasti solo i morti, ci dicono, ma gli sporadici spari che si sentono ci fanno pensare che esiste ancora una resistenza, seppure debolissima. Dove sono andati gli abitanti? Qui, in altre scuole, negli edifici del comune, presso le famiglie che ancora hanno una casa. I dati ufficiali delle Nazioni Unite (responsabili del campo profughi) dicono che sono 3 mila gli abitanti di case distrutte nel campo. E gli uomini? Uccisi, arrestati, evacuati nei villaggi limitrofi. Sappiamo da fonti giornalistiche che nel villaggio di Rumana sono arrivati 500 palestinesi da Jenin, in mutande e scalzi, rilasciati in questo stato dopo essere stati arrestati nel campo profughi. Nella scuola sono molte le donne e i bambini che ci parlano di mariti, padri, fratelli, uccisi sotto i loro occhi. Una donna mi avvicina, lo sguardo duro. Mi dice di andare nel campo a vedere se suo marito è ancora vivo. Lei è stata evacuata quattro giorni fa, suo marito è stato legato, in ginocchio per terra davanti casa, insieme ad altri 40 uomini. Una sua vicina arrivata ieri alla scuola le ha detto che era ancora lì, nella stessa posizione, senza cibo né acqua. Le dico che non posso andare, che il campo è chiuso a tutti, anche alla Croce rossa e alle Nazioni Unite, che ci sono i cecchini che sparano verso chiunque tenti di avvicinarsi. Mi risponde: “e allora che sei venuta a fare?. Non ho bisogno della tua acqua”. Anche un gruppo di tre ragazze giovanissime mi rimprovera. Una ha perso il padre, le altre non so, non ho il coraggio di chiedere. Tutte sono senza casa. Mi dice anche lei “non voglio aiuti, mi puoi ridare mio padre? mi puoi dare giustizia?? Ma non ho risposte. E allora suggeritemi voi cosa dire a quelle ragazze, come convincerle che esiste ancora la speranza di un percorso di pace. Io l’ho persa. Carla Benelli


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