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M.O. David Jaeger, la tregua di Zinni non serve

La tregua di Zinni non serve: è urgente una Conferenza di Pace Intervista a p. David Jaeger, francescano israeliano a Gerusalemme Gerusalemme a Fides

di Redazione

La settimana di maggior violenza da quando è scoppiata la Seconda Intifada, mette a dura prova le speranze di pace e la politica internazionale. Eppure qualcosa di muove. L’arrivo del gen. Anthony Zinni, inviato USA, ieri notte a Gerusalemme, si presenta come un tentativo di tregua in vista dell’applicazione delle proposte Tenet e Mitchell. La visita di Zinni – stasera visiterà anche Ramallah – ha dato luogo anche al primo strappo pubblico fra Stati Uniti e governo Sharon: la stessa Casa Bianca ha condannato l’intensità delle ultime incursioni nei campi profughi e nelle città ed il Dipartimento di Stato esige il ritiro delle truppe israeliane dalle zone A dell’Autorità palestinese. La Casa Bianca ha pure bocciato la proposta di un aiuto speciale di 200 milioni di US$ a Israele, per “la lotta globale contro il terrorismo”. A p. David Jaeger, ofm, israeliano, esperto di questioni mediorientali, Fides ha posto alcune domande. Domanda: P. Jaeger, cambiamenti in vista nel rapporto Usa-Israele? Risposta: Non è facile capire se il nuovo atteggiamento della Casa Bianca preannuncia una vera divergenza fra Washington e Tel Aviv, o se si tratta solo di uno show montato in vista del viaggio del vicepresidente Dick Cheney nei paesi arabi. Questi si lamentano sempre che gli USA favoriscono troppo Israele. Come valuta le prospettive di pace? Puntare ancora una volta sulla tregua non promette molto. Certo, vi sarà una riduzione degli scontri perché entrambi gli schieramenti hanno bisogno di ricostituirsi e curare le ferite. Ma non si può pensare a una tregua continua. Dal punto di vista palestinese la tregua è solo il ritorno alla situazione che ha provocato la sollevazione: significa che continua l’occupazione israeliana come prima. Dopo tutte le distruzioni, i morti, le vittime, rimane l’occupazione militare dei territori palestinesi; la colonizzazione; la mancanza di speranze. L’unica speranza è non restare chiusi nel discorso della tregua, ma di puntare fin d’ora sul rapido riprendere dei negoziati di pace. E in questa base, cercare la tregua mentre si negozia la pace. Domanda: Ma chi è pronto alla pace? Risposta: I palestinesi sono pronti a questo passo. Israele parla a più voci: il primo ministro dice che prima ci deve essere la tregua, e dopo si potrà negoziare un accordo interino di lunga durata nel corso del quale cresca la fiducia reciproca che, dopo anni e anni, porterà alla ricerca di una pace definitiva. Anche il ministro Peres è sostanzialmente d’accordo con questa posizione. Solo l’opposizione fuori del governo (ad esempio Yossi Beilin) crede alla possibilità di un accordo reale di pace da subito. Domanda: Dobbiamo aspettarci ancora morti e uccisioni? Risposta: Per cambiare la situazione occorre che ONU, USA ed Europa smettano di praticare una “omissione di soccorso”, e si dedichino invece a una “missione” per catalizzare verso una Conferenza di Pace. Questa Conferenza deve essere una “riconvocazione di Madrid”, che prevedeva una pace definitiva anche con Siria e Libano. Cosa complica la situazione in Israele? La politica. Il problema più cocente in Israele è che una grandissima parte dell’opinione pubblica abbraccerebbe una proposta di pace. Purtroppo, questa apertura non ha uno sbocco politico. Il partito di alternanza, il laburista, è dentro il governo e non vuole lasciarlo. È questa la cosa allucinante per gli israeliani. Il popolo sarebbe disposto alla pace, ma il partito che potrebbe creare un’alternativa si è azzerato su posizioni governative. Questi sono i sentimenti prevalenti. Soprattutto adesso che le violenze toccano ogni famiglia, il popolo cerca la pace. La pace è un problema di leadership e non di popolo, sia per gli israeliani che per i palestinesi. Due giorni fa il Consiglio di Sicurezza ONU ha reso nota una Risoluzione per la nascita di uno stato palestinese. È una novità. Le risoluzioni fondamentali del passato le 242 e la 338 non conoscono l’argomento dell’indipendenza palestinese. Prima si parlava dei palestinesi come un problema dei profughi o dei territori occupati. È la prima volta che, su proposta degli Stati Uniti, si abbraccia la meta di uno stato palestinese indipendente, che viva affianco a uno stato d’Israele indipendente, in pace. Sul piano concettuale è una novità importante. Su quello della politica pratica non si riesce a vedere un impatto. In Israele, lo stesso Primo Ministro Sharon ha parlato più volte di “uno stato palestinese”. Il vero problema è quanto sarà grande questo stato palestinese: quanto lo stato del Vaticano o capace di accogliere tutti i palestinesi?


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