Formazione

Lutto per la cultura. Morto Raboni

Collaborava con il Corriere ed era presidente onorario dell'Ass. Testori, oltre ad essere testimonial di Vidas. Un impegno che gli stava davvero a cuore. Come racconta in questa intervista rilasciata

di Redazione

E’ morto questa mattina il poeta Giovanni Raboni. Raboni era nato a Milano nel 1932. Aveva iniziato con due brevi raccolte (Il catalogo è questo, e L?insalubrità dell?aria), uscite all?inizio degli anni Sessanta. Tra le sue raccolte successive si ricordano Le case della Vetra (1966), Economia della paura (1970) poi confluito nel più ampio Cadenza d’inganno (1975), Nel grave sogno (1982), Canzonette mortali (1986), A tanto caro sangue : poesie 1953- 1987 (1988) silloge delle proprie poesie. A partire da Versi guerrieri e amorosi (1990), Raboni utilizza la forma chiusa, recupera la metrica tradizionale e la rima. Seguono: Ogni terzo pensiero (1993), Quare tristis. Con Barlumi di storia (2002) Raboni, meditando attraverso il ricordo della guerra vissuta da bambino, ma anche sugli eventi storici che vanno dall?assassinio di Kennedy a un presente visto con dolore e insofferenza, torna alla forma libera. Raboni era collaboratore del Corriere della Sera e presidente onorario dell’Associazione Giovanni Testori. Raboni, la serenità dell’ultima rima (Pubblicata il giorno 23/07/03) Riflettere sul senso della morte per Giovanni Raboni è un esercizio naturale, almeno per tre ragioni. Primo, perché un poeta non può fare a meno di provare a interpretare l’ignoto; secondo, perché il destino gli ha tolto molto presto i genitori; terzo, perché è testimonial di Vidas, un’associazione che si occupa di dare assistenza ai malati terminali di cancro. In questi giorni Raboni sta trascorrendo le sue vacanze, come di consueto, facendo la spola fra le montagne del bellunese e la sua abitazione di Milano. Magro, barba e capelli bianchissimi, una voce pacata e uno sguardo fermo gli donano l’aria da vecchio saggio. Uno che vale la pena stare ad ascoltare. “Soprattutto quando tengo in mano un mattone”, aggiunge riferendosi ai cartelloni che in questi giorni addobbano Milano e lo ritraggono in compagnia di Carla Fracci per promuovere il progetto di una casa ospedale targata Vidas. “Anzi”, continua, “colgo l’occasione per invitare tutti i miei concittadini a fare uno sforzo per sostenere l’associazione”. Vita: Già avere un poeta come testimonial è una chicca, che faccia anche l’addetto marketing poi, è sorprendente. Vidas ha trovato il suo uomo Del Monte? Giovanni Raboni: Perché no? Chiaro che non sono Jovanotti. Ma con me e con la Fracci l’associazione cercava testimonianze non del tutto ovvie. Diciamo che hanno giocato sull’elemento sorpresa. Del resto, da tempo seguivo le loro attività attraverso la lettura dei giornali. La collaborazione vera e propria, però, è nata grazie a un amico che mi ha messo in contatto diretto con la presidente. Da qui la proposta di sostenere il progetto Hospice. Chiaramente ho accettato. Vita: Sarebbe stato difficile dire di no. Raboni: Certo, difficilissimo. Rimane che io non ci ho pensato un attimo. Vita: Perché tanta prontezza? Raboni: Vidas ha una finalità straordinariamente importante: accompagnare alla morte i malati terminali di cancro. Un’esperienza che ho vissuto con mia madre, quando avevo vent’anni, dopo che mio padre poco tempo prima ci aveva lasciato, e poi l’anno scorso con mio fratello. I miei genitori se ne andarono in modo diametralmente opposto: mio padre scomparve all’improvviso lasciandomi disperato e stupefatto; mia madre, invece, l’ho vista morire piano piano: aveva un tumore. Anche per questo il valore della vita residuale mi ha sempre colpito. Non è solo una questione di dignità. Quei momenti sono preziosi per scoprire dei valori che chi vive con prospettive limitate non è in grado di apprezzare. La domanda cruciale su cui sia io che Vidas abbiamo deciso di costruire la nostra esperienza è: che senso ha una vita condannata? Vita: Come risponde a questo interrogativo? Raboni: Prendendo consapevolezza che la vita non è una questione di misura, è qualità, intensità. Esistono forze che si possono sprigionare anche negli ultimi istanti dell’esistenza e che anche i malati terminali possiedono. Vita: Lei ha superato i 70 anni. L’età ha avuto un peso nella scelta di sostenere Vidas? Raboni: Non credo, forse a livello inconscio qualche influenza l’ha avuta. Ma il tema della morte è da sempre presente. Basta leggere le mie poesie. Vita: Come del resto la sua milanesità. Anche in questo lei e Vidas vi assomigliate. L’associazione è nata e si è radicata proprio nella sua città. Raboni: L’unicità di questa associazione dà fiato alla Milano altruista e generosa di qualche decennio fa. Alla base c’è la capacità di immaginare gli altri. Io credo che il cuore di quello che noi chiamiamo altruismo, o in termini cristiani si può definire carità, sia una questione di immaginazione. Uno non può provare umanità se non è in grado di immaginare gli altri. Di uscire da se stesso per immaginare i problemi e la vita degli altri. Milano, che è per definizione la città del fare, della prassi, aveva come solido contraltare la capacità di immaginare e di accogliere il diverso, l’estraneo. Vidas è contemporaneamente l’esaltazione e il ritorno a questa propensione: il suo sguardo punta addirittura a scavalcare i confini della vita terrena. Vita: Non crede che chi si occupa di malati terminali, faccia sua una causa naturalmente persa? Raboni: Certo che è una causa naturalmente persa, ma proprio per questo è vinta in partenza. Quello che Vidas fa è comunque di più, è un aiuto che solitamente si tende a non dare perché ritenuto superfluo. Vita: Ritiene davvero che sia possibile aiutare persone che sanno di dover morire da lì a poco? Raboni: Ne sono convinto. E metto in primo piano il sostegno materiale e pratico: è l’ingrediente principale della serenità. Poi viene la presenza, l’affetto, le premure, la capacità di prevenire certi desideri e certi bisogni. Vidas è lo strumento che permette ai suoi utenti di conquistare la serenità, in una condizione estrema, finale. Una funzione che è propria anche della religione, ma che può assolvere chiunque abbia la capacità di essere umano. Io non so se sarei in grado, ma certo riesco a immaginare che lo si possa fare. Vita: Si impara qualcosa stando a contatto con quei malati? Raboni: Non so se si apprende a convivere con la propria malattia, anche se in cuor mio me lo auguro, sicuramente però dall’emergenza vengono fuori qualità umane importanti. Io, l’anno scorso, quando ho perso mio fratello, ne ho ammirato la forza d’animo, non so se sia stato un insegnamento, di certo è stato un arricchimento. Vita: Quali qualità deve avere un operatore per occuparsi a tempo pieno di queste persone? Raboni: Ancora una volta è questione di immaginazione, che è il contrario dell’egocentrismo e dell’egoismo. Le persone che si offrono per un’attività come questa sublimano se stessi mettendosi a disposizione degli altri. Si tratta, senza ombra di dubbio, della forma più evoluta di felicità.


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