Cultura

L’utopia dei fiori nella terra dei fuochi

Alla Reggia di Caserta inaugura un progetto suggestivo messo a punto da due giovani artisti, Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi. Un tentativo di cambiare la narrazione e l’immaginario di queste terre tormentate. Intervista a Daniele Capra, tra i curatori del progetto

di Giuseppe Frangi

Da terra dei fuochi a terra dei fiori. Domani alla Reggia di Caserta prende corpo una piccola utopia. Un duo di artisti, Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi, con la forza delle immagini ha provato a costruire una contro narrazione di questa zona tanto tormentata d’Italia. Dalla terra dei fuochi, disseminata di scorie tossiche e avvelenata dalla malavita, alla terra dei fiori, luogo in cui crescono gerbere e crisantemi, fiori che l’arte accoglie per farne espressione di rigenerazione, bellezza e spiritualità. L’attenzione al fiore è connaturata nella storia del duo: trae ispirazione dall’antica tradizione dell’infiorata di Scicli (sono siciliani tutt’e due) tipica della festa di San Giuseppe. Nella giornata inaugurale della mostra Vinci–Galesi daranno tra l’altro vita ad una performance insieme a due gruppi di bardatori di Scicli e a uno stallone frisone nero, Eros, riuniti in un gruppo integralmente ammantato di fiori. «La terra dei fiori» è un progetto che è un po’ sfida: misurare la capacità dell’arte di intervenire nel vissuto concreto delle persone mettendo in moto un nuovo immaginario. Anche di questo abbiamo chiesto a Daniele Capra curatore della mostra insieme a Gabi Scardi.


Dai fuochi ai fiori. L’arte può avere la forza di scalfire l’immaginario negativo che si accanisce contro questa terra?
La terra dei fuochi è disseminata di scorie tossiche, è avvelenata, insalubre, è vinta dagli eventi tragici che l’hanno colpita. È un dedalo attorcigliato come in una tragedia greca in cui gli dei puniscono gli uomini per la loro superbia. Il progetto vuole essere l’innesco di un possibile cambiamento, a partire proprio dalle percezioni delle persone che in quei luoghi vivono: sono loro i primi destinatari del progetto. A questa impasse Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi suggeriscono una via di uscita, una contro-narrazione territoriale, a partire dai fiori che in Campania sono coltivati. Al degrado essi contrappongono infatti il rigoglioso germogliare della natura, che incarna la volontà di sottrarsi alla prigionia della storia e del degrado civile di chi non vuole vedere. L’arte deve contribuire ad attivare un sentiero di salvezza, a sorpassare l’indifferenza che, come scriveva Gramsci “è vigliaccheria, è non vita”.

Come sei arrivato al progetto con gli artisti?
La mostra La terra dei fiori è nata insieme con gli artisti e con il loro gallerista, Gerardo Giurin, di aA29 Project Room. Il progetto raccoglieva gli esiti del precedente lavoro di Vinci/Galesi, realizzato a Scicli in luoghi caratterizzati da abbandono e trascuratezza, e ne è diventato il naturale prosieguo. L’idea era quella di invertire gli stereotipi negativi di un territorio attraverso i fiori qui coltivati: le terre rovinate dai rifiuti tossici sono infatti anche tra le più produttive del nostro paese. Non a caso i latini erano soliti usare l’espressione Campania felix (Campania feconda) e tra l’altro una delle opere, una serie di mattoni realizzati impastando il terreno proveniente dalla terra dei fuochi, reca proprio la scritta felix sulla superficie. Elaborato il progetto lo abbiamo presentato ad uno dei dirigenti della Reggia, Vincenzo Mazzarella e poi al nuovo direttore Mauro Felicori. Ne sono stati subito entusiasti.


Vinci – Galesi, La terra dei fiori, 2017, stampa su carta Hahnemühle, courtesy of the artists and aA29, Milano – Caserta, ph. Marcello Bocchieri

Il fatto del “duo artistico” aggiunge altro significato ad una mostra che vuole trasmettere dei significati?
La terra dei fiori è un progetto collettivo, nell’ideazione, nei destinatari, e anche nel coinvolgimento delle persone. I mantelli di fiori, il cui uso nasce dalla rievocazione della festa di San Giuseppe a Scicli, sono realizzati grazie al lavoro di una decina di bardatori che infiorano il tessuto con migliaia di gerbere e crisantemi. La performance stessa che sarà effettuata presso la Reggia vede il loro coinvolgimento, oltre a quelli degli artisti e di un magnifico frisone nero che simboleggia la forza e l’irruenza della natura.

Come hai pensato il percorso nei grandi spazi di Caserta? Le hai messe in dialogo con gli ambienti?
Le opere occupano la sala Romanelli, dalle volumetrie ampissime. Le foto più grandi di Vinci/Galesi sono in dialogo dimensionale con le opere a parete (per lo più scene di paesaggi e di battaglie), mentre nelle pareti che guardano il cortile trovano posto un icastico neon magenta ed una foto retroilluminata del cavallo a dialogo con dei solidi platonici pieni di fiori che pare quasi un quadro rinascimentale dai significati misterici: l’opera mette infatti lo spettatore nella condizione di dover scegliere, e ricomporre, l’apparente dilemma tra la natura selvaggia, simboleggiata dal cavallo, e la ragione, la razionalità incarnata dai solidi accomunati dal fatto di avere gli spigoli delle stesse dimensioni. Il centro della stanza è invece occupato da sei bacheche che raccolgono i disegni di Sasha Vinci e gli scatti della performance, testimoniata anche da un video. Su una colonna trovano poi posto i mattoni di Campania felix, quasi un invito rivolto allo spettatore a sorpassare il passato e costruire qualcosa di nuovo…

Caserta non è nuova a contaminazioni con l’arte contemporanea. Che accoglienza ti aspetti da una contaminazione come quella che tu hai proposto?
Recentemente la magnifica collezione Terrae Motus ha trovato degna collocazione alla Reggia. Inoltre negli ultimi anni il palazzo ha ospitato delle mostre, anche se di livello che personalmente non trovo pari all’importanza del contesto. La terra dei fiori sarà un esperimento, un tentativo di far uscire dalla mostra il visitatore con qualcosa di nuovo nelle tasche. Come un’idea, un desiderio di cambiamento, una piccola utopia a portata di mano.

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