Mai come quest’anno la ricorrenza del 21 settembre, Giornata mondiale per la pace, suona tragicamente beffarda. Del resto, dice l’antica massima, hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato pace. Senza scomodare Tommaso d’Aquino, che pure introdusse il concetto di “guerra giusta” nel XIII secolo, e stando solamente a ieri, la guerra si è persino dichiarata “umanitaria”, oltre che “permanente” e “preventiva”.
Erano i tempi di George Bush e Dick Cheney, fautori dell’invasione dell’Iraq. Assai determinati poiché molto interessati: il primo all’industria petrolifera di famiglia, il secondo a quella militare e della sicurezza, oltre che del petrolio, essendo stato al vertice della multinazionale Halliburton prima di diventare vicepresidente USA.
Per poter scatenare quella guerra, il presidente statunitense, assieme al sodale e complice Tony Blair, premier britannico e leader laburista, allestirono allo scopo prove false su una presunta “pistola fumante”: le armi chimiche che sarebbero state nelle mani di Saddam Hussein. “Prove” con le quali ingannare le Nazioni Unite e l’opinione pubblica mondiale per forzarle ad accettare l’occupazione di quel paese da parte di una “coalizione dei volenterosi” (capitolo a parte meriterebbe l’analisi dell’evoluzione della retorica e del vocabolario bellicista negli ultimi decenni e così pure dell’uso bellico delle fake news e della propaganda), cui aderirono e in parte contribuirono con invio di contingenti militari dozzine di paesi, Italia compresa.
Fu scarsa l’opposizione politica a quella che, assieme alla precedente dissoluzione violenta della ex Jugoslavia, sponsorizzata e perseguita dall’Occidente, costituì la premessa dell’attuale quadro di conflitto permanente, di disordine e devastazione globale. Un potente movimento scese allora in piazza in tutto il mondo, ma fu sconfitto dagli ancor più potenti interessi dei signori della guerra.
Il piccolo errore di Blair e i pacifisti “imbecilli”
Il “signore” corresponsabile della guerra e devastazione irachena, Tony Blair, nel 2007 è stato gratificato del paradossale incarico di inviato di pace in Medio Oriente del Quartetto (Nazioni Unite, USA, Unione Europea e Russia). Incarico che ha mantenuto, senza peraltro ottenere alcun risultato, sino al 2015. Solo allora sono venute le sue autocritiche per la guerra irachena, con l’ammissione che lui e Bush “si erano sbagliati”.
Un errore costato centinaia di migliaia di morti e la perdurante destabilizzazione di un’intera regione: le vittime dirette di quel conflitto sono quantificate tra le 275.000 e le 306.000, in gran parte civili (tra i 185.000 e i 208.000). Nessuna Corte o Tribunale internazionale ha sinora ritenuto di chiederne conto.
A ricordare, insomma, che l’ipocrisia di politica e governi (e media mainstream) non ha confini e pudori. E neppure sincere resipiscenze: nell’estate 2021, conteso dai media internazionali, Blair è tornato a discettare di governance mondiale e di geopolitica. In particolare, criticando il ritiro delle truppe dall’Afghanistan ed evidenziando un inalterato approccio bellicista alle strategie globali e all’affrontamento del problema islamista; una sfida, da lui paragonata a quella verso il comunismo novecentesco, nei cui riguardi, a suo parere, l’Occidente esprimerebbe una pericolosa debolezza e mancanza di volontà.
Per Blair (al tempo faro di molte parti del centrosinistra italiano ed europeo), il ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan (dopo ben venti anni di guerra e occupazione, e 176.000 vittime, giova anche qui rammentare) costituisce la rinuncia a una visione e a interessi strategici, una scelta compiuta «in obbedienza a uno slogan politico imbecille sulla fine delle “guerre per sempre”».
Il 21 settembre, insomma, è la ricorrenza che noi imbecilli ci ostiniamo a ricordare. Perché l’obiettivo della cultura (e delle politiche) di pace è esattamente quello: la fine delle guerre per sempre. Obiettivo meno utopico di quanto troppi commentatori e decisori pensano, o fingono di pensare.
Anche qui l’ausilio della memoria è strumento – di verità e di cambiamento – potente, ancorché svilito e insidiato non solo dai disinformatori professionali, ma dalla stessa mutazione epocale avvenuta nella comunicazione con i social network.
Il patto di rinuncia alla guerra del secolo scorso
Bisognerebbe allora ricordare che nella storia del Novecento – che è stato sì secolo terribilmente insanguinato ma anche, e forse perciò, contraddistinto da utopie concrete e potenti – esistono precedenti come il Patto Kellogg-Briand del 1928 (altrimenti detto Patto di Parigi o Patto di rinuncia alla guerra).
Pur rimanendo inapplicato, arrivò a essere ratificato da 63 Stati. È significativo che, anche allora, siano stati i movimenti sociali a sollecitare e indirizzare quella proposta politica a livello istituzionale. A promuoverla fu un movimento, principalmente statunitense e francese, che, a posteriori del grande macello della Prima guerra mondiale, sollecitò a mettere fuorilegge la guerra. Perché, a differenza dei loro governanti, i cittadini sanno per tragica e secolare esperienza che sono i popoli a pagare per intero i prezzi delle guerre, non gli “oligarchi” di ieri e di oggi che, anzi, con le guerre realizzano ulteriori business e incrementano i loro poteri.
Di una nuova guerra mondiale siamo oggi alla vigilia, se non ai primi atti, data l’escalation quotidiana e l’evidente e pericolosa strategia occidentale di mettere nell’angolo, senza vie di uscita, non solo la Russia di Putin ma la stessa Cina.
Perché la guerra in Ucraina abbia termine, occorre che le armi tacciano e si ridia spazio e possibilità alla politica e alla diplomazia. E che le Nazioni Unite tornino a essere sede di confronto, e sia pure di scontro, anziché di pericola esclusione.
Poi, così, potrà venire il tempo del giudizio e dei bilanci. Anche il tempo per indagare e per punire i crimini di guerra. Senza dimenticare la necessità di colpire e di mettere in condizione di mai più nuocere anche “i profittatori di guerra”. Ovvero ricordando qual è la fabbrica di quei crimini: la guerra in quanto tale.
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