Cultura

L’uomo che metteva le ali a Battiato

Manlio Sgalambro ci ha lasciato questa mattina a 89 anni. Filosofo controverso, ma soprattutto autore insieme al cantautore catanese di brani popolarissimi come "La cura" e "Shock in my town"

di Francesco Mattana

Ancor prima di conoscere Manlio Sgalambro, Franco Battiato era già un catalogo Adelphi vivente: metafore ardite, linguaggio per iniziati, provocazioni sottilmente ironiche. Eppure si era innescato qualcosa di magico, un’empatia misteriosa con la gente comune: al bar, come in spiaggia o in tram, sentivi ragazzini che cantavano versi come: “I desideri mitici di prostitute libiche / Il senso del possesso che fu pre-alessandrino”. Altro che pane e brioches: questa era cultura, alta erudizione servita al popolo.

Nel 1993 avvenne l’incontro del cantautore col filosofo scomparso questa mattina, a Catania : presentarono insieme un volume del poeta Angelo Scandurra, amico comune. Da allora, non si sono lasciati più: anime gemelle, complici, sodali che insieme hanno inanellato un successo dietro l’altro in ambito musicale. La cura senza dubbio è il brano rimasto maggiormente nella memoria collettiva, reggendo meglio alla prova del tempo, ma sono tanti i pezzi coi quali hanno colpito e affondato il cuore degli ascoltatori: Shock in my town, Bist du bei mir, Apparenza e realtà, I giorni della monotonia. Perle rare, gioielli destinati all’immortalità; la prova che Sgalambro, dopo anni di contributi filosofici rimarchevoli, aveva bisogno della forma canzone per comunicare il proprio universo interiore. Lo ammetteva lui stesso, con quell’onestà intellettuale che sempre lo ha contraddistinto: «La musica leggera ha questo di buono, in tre minuti si può dire quanto in un libro di 400 pagine o in un’opera completa a teatro». La verità è questa: oltre alla disinvoltura in campo speculativo, l’uomo era dotato anche di sintesi poetica; riassumeva, nello spazio di una canzone, immagini di grande potenza evocativa, capaci di dare un brivido anche a chi solitamente tiene sopite le proprie emozioni.

La morte ha bussato poche ore fa a casa sua. C’è da immaginarsi una sequenza tipo Il settimo sigillo di Ingmar Bergman: solo che al posto degli scacchi Sgalambro ha proposto di giocare alla Marianna, variante sicula della briscola. Alla fine ‘a livella ha fatto punteggio 501, e la partita si è chiusa definitivamente. La cosa, comunque, non deve avergli destato particolare preoccupazione. Affrontava l’argomento con le spalle larghe: «Il nascere e il morire sono i due momenti unicamente reali. Il resto è sogno, interrotto da qualche insignificante sprazzo di veglia». Questa perla di saggezza l’ha introdotta ne Il cavaliere dell’intelletto, prima collaborazione in tandem con Battiato, dedicata a un personaggio storico che si distinse per la sensibilità culturale: Federico II.

Ma chi era Manlio Sgalambro prima dell’incontro con l’artista catanese? Era un signore che aveva già creato un certo scompiglio tra gli appassionati di filosofia, con opere ispirate a pensatori del calibro di Nietzsche, Schopenhauer, Emil Cioran. Dunque non era un perfetto sconosciuto, c’era già chi aveva intuito le sue potenzialità nella scrittura. Naturalmente, poiché negli ambienti accademici non mancano le invidie latenti, i risentimenti, i dispetti presenti in qualunque altro settore, è scontato che l’ingresso di questo siciliano così indipendente nella saggistica filosofica non sia stato accolto con particolare simpatia dagli addetti ai lavori. Oltretutto lui da ragazzo non volle iscriversi a filosofia, perché preferiva coltivare la disciplina autonomamente: memori di questo fatto, i filosofi non gli hanno mai conferito una laurea honoris causa. Ad ogni modo, non era certo il tipo che si soffermava su queste piccolezze. In più non gli mancava l’autoironia: quando nel 2001 accolse l’invito di Battiato a cantare, giustificò la scelta con queste parole: «Un alleggerimento che considero doveroso, dobbiamo sgravare la gente dal peso del vivere. Questa volta mi sono sgravato anch’io». Il disco si chiamava Fun club: curioso sentirlo interpretare La vie en rose, Moon river e addirittura Me gustas tú di Manu Chao. Curioso, ma non strano: chi lo conosceva fino in fondo, sapeva che c’era una linea di continuità tra i suoi libri pensosi –La morte del sole, Trattato dell’empietà, La consolazione– e il divertissement canoro.

Battiato camminava con stazione eretta anche senza di lui. Con l’aiuto di Sgalambro, è accaduto questo di nuovo: la sua musica ha messo le ali; ha sorvolato il panorama della discografia contemporanea, lasciando dietro di sé una scia di poesia. Difficilmente eguagliabile, difficilmente riproducibile.

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