Formazione

L’università non sprechi la riforma

L'intervento

di Redazione

È importante che la riforma Gelmini passi, e passi velocemente, e che si possa così mettere mano alla sua attuazione, fase quanto mai delicata visto che molti principi devono poi essere resi concreti tramite decreti e regolamenti ministeriali, tramite l’adozione dei nuovi statuti e, soprattutto, tramite un forte cambiamento della cultura e del costume accademico. Per traghettare finalmente il nostro sistema di formazione superiore dal nostrano radicato provincialismo alla competizione internazionale sul piano scientifico e alla produttività sul piano formativo.
La nuova governance degli atenei appare più moderna ed efficiente, con una partecipazione, seppur minoritaria, di rappresentanti della società civile e del modo economico e produttivo (i cosiddetti “esterni”, che dovranno essere non più di 3 su 10 lasciando agli accademici le maggiori responsabilità); il rettore potrà perfino essere sfiduciato dal Senato accademico se ritenuto colpevole di cattiva amministrazione.
La valutazione della produttività delle università e dei docenti, da reclutarsi tenendo conto anche degli standard internazionali, viene sottolineata in più punti del testo normativo e servirà da parametro per la distribuzione dei finanziamenti: vincerà il merito, dice in legislatore, e chi non sarà virtuoso ne pagherà il fio.
I piccoli atenei e i corsi di laurea proliferati in questi anni potranno consorziarsi per evitare la chiusura e, se creeranno risparmi, potranno tenerli a bilancio e usarli per migliorare le proprie performance.
L’internalizzazione sarà favorita, i corsi in inglese finanziati, sarà possibile invitare docenti stranieri e stipulare contratti di insegnamento e contratti per la ricerca, liberalizzando almeno in parte l’acquisizione di nuovi docenti. Si rende infine obbligatorio il codice etico per tutti i dipendenti, si vieta di assumere parenti e affini, si stabilisce un monte ore annuo per i docenti meno clamorosamente distante da quello di tutti gli altri dipendenti pubblici (1.500 ore annuali, tutto compreso), si tenta in qualche punto persino di svecchiare i componenti degli organi accademici.
Sarà la forza e la coerenza con cui tutto questo avverrà a determinare il successo o il fallimento del tentativo serio che questa legge rappresenta; il che dipende solo marginalmente da come essa è stata scritta o riscritta: sono gli attori del sistema che devono adesso dimostrare al Paese che essi vogliono davvero rinnovare l’Università, un rinnovamento che dovrà procedere caso per caso, valorizzando le eccellenze e ponendo mano alle inefficienze.
Se invece questa legge sarà l’ennesimo tentativo di cambiare tutto per non cambiare nulla, allora dovremo prendere atto che – per l’ennesima volta – si è trattato di una legge come un’altra, un’occasione mancata per dare ai nostri ragazzi un’istruzione superiore degna del terzo millennio e ai nostri scienziati un luogo in cui esprimere la propria creatività, senza bisogno – come spesso è stato in passato – di fare le valigie per mettere il proprio cervello a disposizione di chi è già da oggi in grado di farlo fruttare (pagandolo profumatamente).

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