Famiglia

Luminusa, Lampedusa

Crocevia di destini, terra promessa, luogo dello sbarco per migliaia di donne, uomini e bambini. Col suo nome che evoca luce, Lampedusa è al centro delle cronache "di strazio e solidarietà" che giorno dopo giorno ci raccontano una tragedia senza fine. O non ce la raccontano affatto. Tra il clamore e il silenzio, la letteratura si assume l'onere di una supplenza civile: dire, indicare, parlare al cuore e alla mente. Accade nel nuovo romanzo di Franca Cavagnoli

di Marco Dotti

Undici sillabe, l'accento è libero. Sembra facile, ma servono pazienza e anche un po’ di coraggio. Un endecasillabo è qualcosa che ci prende in controtempo, se alla scrittura mancano rigore e precisione. A vederlo lì, sulla carta, lo si direbbe troppo breve persino per quei "140 caratteri" che sono oramai diventati la forma standard per circoscrivere il mondo e sentirsi al sicuro.
Eppure Mario, protagonista di Luminusa (Frassinelli, pagine 168, euro 18,50) l'ultimo romanzo di Franca Cavagnoli, arrivato a Lampedusa per aiutare chi arriva e finito per non ritornare più – o meglio, come si capirà nel finale del libro, pronto anch'egli a ripartire ma in direzione ostinata e contraria, verso un nuovo sud – si serve proprio dell'endecasillabo per portare a termine il proprio lavoro: comporre didascalie. Mario compone didascalie con la pazienza con cui si intessono tappeti. Fra trama e ordito le parole intrecciano la sua con le vite degli altri.

Comuni indifferenze

Non sono didascalie "comuni", quelle di Mario. Sono didascalie per gli oggetti che arrivano al museo, un piccolo museo se così si può chiamare una stanza di quattro metri dove «conservare la memoria di chi è passato – o non è mai arrivato – e ha lasciato un rotolo di lettere, un disegno, un libro, una scarpa da tennis in fondo al mare».
I volti, però, non ci sono. Riappaiono in sogno, quando le storie prima solo ascoltate di mille violenze e fughe dall’Africa si ripetono, lo agitano e assumono la consistenza e il colore di un'esperienza comune. C'è tutta una geopolitica delle emozioni, in quei sogni. C'è la tragedia, c'è il mare e ci sono mille domande. E c'è lui, Mario, un giovane come tanti, pieno di volontà e disillusioni – le due cose vanno assieme, quanto ci vuole per capirlo? – pieno di capacità e voglia, fiaccato dal fiato troppo corto e pesante delle generazioni che hanno svenduto il Paese e i propri sogni li hanno messi a regime, consumati nella sterilità dei salotti o uccisi nel cassetto di qualche ricca scrivania di palazzo. Nelle scrivanie e nei salotti, muore il pensiero perché – diceva Rilke – le maschere aderiscono a tal punto ai volti che non te le puoi più togliere: ne apparirebbe un volto bucato, impresentabile.

Dove sono i volti? I nostri, i "loro"? E i nomi? Mario se lo sente chiedere leggendo Lo straniero di Albert Camus. Allora capisce – e anche il lettore attento lo capisce – che Camus tutto ci ha detto e tutto ha descritto in quel suo straordinario affresco del cinismo freddo dei nostri tempi, ma tra le pieghe di una scrittura lucidissima ha nascosto l’ultimo indizio, quello cruciale, l’ultima didascalia: nessuno conosce il nome dell’arabo assassinato da Meursault. Meursault è l'indifferente straniero a se stesso protagonista del romanzo di Camus che in un atto nemmeno gratuito ma banale, per futili motivi, uccide senza sapercene dare e senza volersene dare ragione.

Siamo come Meursault? – si chiede Mario, che ancora legge Camus, mentre i "padri", che gli preferivano Sartre, non lo hanno mai letto, ma solo preventivamente dimenticato. Lo scenario è lo stesso: spiagge e morte, luce, mare e morte. L'ombra della libertà e volti senza nome. Cambia un particolare: l'indifferente non è Mario. E l'arabo? Questo è il punto che inquieta Mario.

Luchino Visconti, portando sullo schermo l'Etranger, decise di rafforzare la scelta di Camus: nessuna menzione viene fatta nei crediti del nome dell'attore che impersona la vittima. L’indifferenza dell’assassino attira tutta la nostra attenzione, ma diventa così la nostra indifferenza. Ci scordiamo della vittima. "Un arabo", così lo si menziona.

Per scrivere le didascalie in endecasillabi ci vuole pazienza. Mi aiuta a immaginare la vita di chi un tempo possedeva le cose che ora stanno appese alle pareti o ai fili tesi da un muro all'altro come corde da bucato, oppure le cose che se ne stanno poggiate al sicuro sopra un tavolo una mensola. Certe volte, però, l'endecasillabo proprio non mi esce, e mi accontento della musica sghemba che ne viene fuori

Franca Cavagnoli, Luminusa (2015), p. 2

Senza il diritto di distrarsi

A volte, a Mario le parole non arrivano, i versi non si chiudono, le sillabe scappano. A volte manca la voglia di dire quello che andrebbe detto e la troppa morte che Mario ha negli occhi, in questa piccola intermittenza del cuore, quando la luce che abita il nome dell’isola si trasforma in incendio , finisce per ingannare il ricordo.Eppure anche qui la vita inaspettata riaffiora: le scarpe e i pochi oggetti di chi è morto in mare all'apparenza inerti sono pronti a “farsi ricordare” da altri.

Scrivere didascalie lo «aiuta a immaginare la vita di chi un tempo possedeva le cose che ora stanno appese alle pareti o ai fili tesi da un muro all'altro come corde da bucato, oppure le cose che se ne stanno poggiate al sicuro sopra un tavolo una mensola».

Talvolta, capita che le didascalie di Mario vengano un po' lunghe e allora sono le storie a esplodere dai margini. Mario le scrive sulla carta velina, perché «sulla carta velina non puoi camminarci sopra con gli anfibi».

Storie così non ti danno «il diritto di distrarti». E se qualcuno si prende la briga e il tempo di leggere la didascalia, allora qualcosa delle loro vite sarà passato, oltre la cronaca e i verbali delle autorità. Mario – lo abbiamo detto – appartiene alle generazioni svendute, più che a quelle degli ideali traditi. Ideali e pratiche non gli fanno difetto e là dove lo sguardo di una sociologia spicciola vedrebbe il vuoto, quello della letteratura sa cogliere un senso che si sta con dolore facendo spazio.

Chi è dunque Mario, inquieto studente immatricolato alla facoltà di Scienze Politiche a Milano? Solo uno dei tanti sradicati delle generazioni nate dopo il 1970? O uno che, al pari di coloro che fino a ieri chiamavamo “migranti” e oggi non sappiamo più come chiamare, ha deciso, non potendo abbatterle, di "disorientare le frontiere"? Di – come diceva Papa Francesco – "non addomesticarle" mai? Una frontiera è come una cicatrice. La puoi chiudere, ma non la puoi levare.

Per i pescatori di queste isole la legge del mare è sacra. Si soccorre sempre chi è in pericolo, questo dice la legge del mare. Ne ho parlato anche con Claudia. "Ma non dovrebbe essere la legge della vita?" ha detto lei

Franca Cavagnoli, Luminusa (2015), p. 128-129

Il male che banalmente accade

Crocevia di destini, terra promessa, luogo dello sbarco e gabbia per migliaia di donne, uomini e bambini, col suo nome che evoca luce, Lampedusa è al centro di quei faits divers "di strazio e solidarietà" che giorno dopo giorno ci raccontano una tragedia senza fine. O non ce la raccontano affatto.

Lampedusa ha un nome dall’origine incerta. Nella sua luce, Ariosto colloca una delle avventure del suo Orlando: Lipadusa, «isoletta è questa che dal mare/ medesmo che la cinge è circonfusa».

Il nome "Lampedusa" pare provenga dal riflesso dei lampi, durante i temporali sul Mediterraneo. Quei lampi illuminavano l'isola rendendola visibile anche da lontano. Un approdo sicuro, la cui luce è diventata “banalmente” una luce d'inferno. Perché – leggiamo in Luminusa – «in questo Paese molto succede banalmente. È proprio così. Il male, Mario, succede in modo banale».

… in questo Paese per troppi anni si è vezzeggiata l'immagine dell'intellettuale seduto al tavolino di un caffè di Parigi davanti al suo Pernod. L'ho vezzeggiata anch'io purtroppo. Il punto non sono gli intellettuali. Il punto è il pensiero

Franca Cavagnoli, Luminusa (2015), p. 43

Non addomesticare le frontiere

«Di chi sono questi morti? Sono soltanto degli isolani? (…) Ma quanti lutti insieme si possono elaborare? E poi, "elaborare"! Già la parola mi mette di cattivo umore. Mica sono dati di un computer. È una fatica micidiale già con uno, già con uno simbolico (…). Piangere un morto è un travaglio – è un lavoro, altro che "elaborazione"» – leggiamo in apertura del romanzo (p. 15).

E il nuovo romanzo di Franca Cavagnoli, tutto è fuorché una “elaborazione” in forma letteraria di questo lutto. Non solo perché è un romanzo che unisce la dolcezza della scrittura alla speranza – mostrandoci quando sappia esser dura e tenace, questa speranza -, ma perché leggendolo sembra di oltre quella "carta velina" che Mario così pazientemente compone. Diremmo che, come per il lavoro di Mario, il suo protagonista, Luminusa è una lenta, paziente, meticolosa ritessitura del reale. E il reale ci dice di quelle storie. Come le didascalie di Mario ci dicono di quelle storie. Come se la vita, ridotta ai margini, potessere poi dai margini far riaffiorare la sua traccia.

Anche oggi continuano a partire. Continuano a non arrivare. Questa cicatrice è lì, nel cuore del paese. Forse il museo dovrebbero costruirlo lì: basta un enorme teca di vetro, farla calare dall'alto, posarcela sopra, perché tutti vedano. Semplice, essenziale. Come la rosa nera di Kounellis.

Franca Cavagnoli, Luminusa (2015), p. 152

Con la sua scrittura raffinatissima, calibrata su registri lievi ma eticamente densi, in Luminosa Franca Cavagnoli tratta di letteratura e di vita. Proprio qui, nell'entre-deux le frontiere – da sempre, ma ce ne dimentichiamo troppo spesso – vengono disorientate. È nella natura della letteratura produrre questo disorientamento, per riorientarci. Verso dove? Verso i volti.

Scriveva Rilke: «Non vi lasciate ingannare dalla superficie. nelle profondità tutto diventa legge».

Con la sua superficie levigata e chiara, Luminusa ci aiuta a guardare dentro l'isola, il suo mare, dentro i suoi destini. Ma anche dentro quell'altrove che potremmo chiamare, agostinianamente, il cuore. Ci induce a farlo – e questo non è più un invito, è una necessità – con occhi affrancati. Si diceva della legge e tanti hanno parlato della legge del mare e con quanta retorica… "Ma non è la legge della vita", quella dell'accoglienza? Non coincide, forse, con la vita stessa? Tutto, nelle profondità, diventa legge: è la condizione dell'umano. A chi ha ancora la forza del pensiero spetta il dovere di ricordarlo. Perché in quelle propondità anche ogni vittima della nostra indifferenza ha diritto alla giustizia del suo nome.

IL LIBRO

Luminusa, Frassinelli, Milano 2015, pagine 168, euro 18,50 #luminusa

L’AUTRICE

Franca Cavagnoli ha pubblicato per Frassinelli i romanzi Una pioggia bruciante e Non si è seri a 17 anni, e per Feltrinelli i racconti Mbaqanga e Black. Ha tradotto e curato opere di J.M. Coetzee, Nadine Gordimer, Katherine Mansfield, Toni Morrison, V.S. Naipaul. Collabora a «il manifesto» e «Alias». Per il suo saggio La voce del testo (Feltrinelli) ha ricevuto nel 2013 il premio Lo Straniero. Nel 2014 le è stato conferito il Premio nazionale per la traduzione del Ministero dei Beni Culturali.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.