Famiglia

L’umanitario passerà ai privati: ecco le prove

Ecco gli studi di un docente francese che ha passato al setaccio bilanci e politiche delle organizzazioni americane

di Joshua Massarenti

Sami Makki è un ricercatore atipico. A soli 30 anni, ha già pubblicato due libri e una trentina di saggi. Membro di alcuni dei più importanti centri studi geostrategici internazionali (International Institute for Strategic Studies, Royal United Services Institute for Defence and Security Studies), insegna a Sciences Po, Sorbona ed École des Hautes Études en Sciences Sociales (Ehess). Ma a differenza dell?élite universitaria francese, spesso rinchiusa in una torre d?avorio, vuole «tenere i piedi per terra. Per me, significa creare delle reti tra società civile, ricercatori e istituzioni». Non a caso, il suo pane quotidiano sono le questioni geostrategiche di sicurezza a livello nazionale, europeo e globale. Militarisation de l?humanitaire, privatisation du militaire (2003) è il titolo di una profonda riflessione sul rapporto triangolare tra ong, attori commerciali e Stati negli interventi umanitari. Un tema che «merita un?analisi seria perché la privatizzazione del mondo umanitario, riflesso di una mutazione profonda dello Stato, è destinato a stravolgere il ruolo delle ong, mettendo a rischio la loro stessa sopravvivenza».

Vita: Le ong italiane stanno attraversando un periodo difficile, con tagli continui da parte del governo. Che cosa succede negli altri Paesi?
Sami Makki: Direi che si tratta di un fenomeno, quanto meno nell?Europa latina. Come le loro sorelle francesi, le ong italiane subiscono gli effetti di una diminuzione consistente dei finanziamenti pubblici allo sviluppo, il che le spinge a cercare fondi nel settore privato. Negli Stati Uniti, il fenomeno si è tradotto in un partenariato sempre più diffuso tra il settore pubblico e quello privato. Questo avviene non solo sul piano prettamente operativo, ma anche sul fronte della ricerca. Purtroppo, su quest?ultimo versante, l?Europa è molto indietro rispetto agli Usa, dove i centri di ricerca e think tanks sono invece molto attivi. Nell?Unione europea, esiste solo l?Overseas development institut (Odi) di Londra.

Vita: Ma spesso analisi e ricerca non sono prioritarie nell?agenda politica delle ong?
Makki: Purtroppo, le ong non riescono a svincolarsi dalla necessità di produrre risultati, dall?azione in senso lato. Questo fa sì che hanno poche possibilità di riflettere sulle reali trasformazioni attualmente in corso nel mondo dell?umanitario, nel mondo dello sviluppo e più in generale nei rapporti sempre più tesi tra gli Stati e le ong. Nel nuovo contesto geostrategico imposto dalla guerra al terrorismo, le ong si sono trovate impreparate di fronte a fenomeni quali la militarizzazione dell?umanitario e il processo di privatizzazione del militare che vede sempre più presente sui terreni operativi le società private a cui fanno ricorso l?esercito americano, se non le Nazioni Unite nelle loro missioni di peacekeeping.

Vita: Quali le conseguenze per l?Europa?
Makki: Gli europei difettano di capacità d?analisi e hanno tendenza ad appropriarsi del modello Usa che, di primo acchito, sembra efficace perché redditizio sul breve-medio termine. Ma è un fenomeno molto rischioso.

Vita: Cosa differenzia le ong europee dalle americane?
Makki: Innanzitutto il peso economico. Sempre più le ong americane funzionano attraverso un numero consistente di filiali nazionali sparse per il mondo. Il caso di World Vision è eloquente. Nel 2000, questa ong contava 65 sedi nel mondo contro le 18 di Medici senza frontiere, 32 di Save the Children e 11 di Oxfam. Sto citando alcune delle ong più influenti del mondo umanitario e già vediamo attraverso questi dati lo scarto che le separa. La potenza delle ong americane si misura inoltre con i fondi che ricevono dall?agenzia Usa per lo sviluppo. Ma la differenza vera la fa il rapporto triangolare tra ong, amministrazione pubblica e settore privato.

Vita: Sarebbe a dire?
Makki: Con l?amministrazione Bush e l?11 settembre, c?è stata una rottura profonda nel modo con cui il governo americano si rapporta con le ong. Con la guerra al terrorismo, la Casa bianca è convinta che gli attori civili devono seguire il passo dei militari. Non a caso, l?ex segretario di Stato, Colin Powell sostenne che «le ong sono una parte della risposta militare statunitense al terrorismo». La pressione del governo è talmente forte che la stessa rete delle ong statunitensi, Interaction, si è piegata a questa nuova logica umanitaria. Nel momento in cui si decide di resistere, l?amministrazione taglia i fondi. Care, che non è certo una piccola realtà, ci ha provato in Afghanistan, ma il richiamo all?ordine è stato immediato.

Vita: è a rischio la sopravvivenza delle ong?
Makki: Certamente. La prima causa è la privatizzazione degli aiuti. Per le ong è un fenomeno con ripercussioni economiche inquietanti. Purtroppo è il frutto di una scelta politica ufficiale. Lo stesso amministratore dell?Usaid, Andrew Natsios, ex presidente di World Vision, ha spinto tantissimo per la privatizzazione degli aiuti sotto forma di partenariati pubblico/privato. Non a caso, il settore commerciale assume da alcuni anni un ruolo sempre più importante nelle politiche di aiuto internazionale. Già nel 2000, quattro delle dieci organizzazioni più finanziate dall?Usaid erano profit. Gli obiettivi del Millenium Challenge Account stimano a 55,2 miliardi di dollari i contributi privati agli aiuti internazionali Usa contro i 30 miliardi di dollari del settore pubblico. Nel contempo, i repubblicani piegano l?Usaid e le ong a logiche di profitto nel quadro di una politica di ?pulizia? della spesa pubblica. Tra il 1997 e il 2002, World Vision ha abbassato di tre punti percentuali i suoi costi di gestione interna mentre sono aumentati i suoi introiti grazie all?apporto di società private. Quest?ultime sono addirittura destinate a sostituire leong nella gestione dell?umanitario. Il che significa la morte sicura delle realtà non profit più piccole. Soltanto chi avrà capacità di analisi, ovvero capire i cambiamenti in corso, potrà salvarsi.

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