Mondo

L’umanitario nel mirino

Le agenzie dell'Onu potrebbero ritirarsi da Mogadiscio e dal Sud.

di Emanuela Citterio

Bollettini di guerra contro gli operatori umanitari. Suonano così gli ultimi comunicati delle Nazioni Unite sulla Somalia, che danno conto delle uccisioni e dei rapimenti sempre più di frequenti negli ultimi mesi. Ieri il coordinatore delle operazioni umanitarie Onu in Somalia, Mark Bowden, ha denunciato come le condizioni di sicurezza stiano «rapidamente peggiorando» nel Paese del Corno d’Africa, tanto da indurre le organizzazioni a prendere in considerazione l’ipotesi di sospendere le operazione nella capitale e nella zona sud del Paese. Stando a quanto riferisce l’emittente araba al Jazeera sul suo sito on line, domenica scorsa gli operatori umanitari si sono riuniti a Mogadiscio per discutere il crescente stato di insicurezza del Paese e, stando a quanto riferito da diverse fonti, gran parte delle agenzie sta valutando l’ipotesi di sospendere le operazioni nella capitale, così come nel sud del Paese.

Ieri, il Pam ha ribadito il suo impegno in Somalia, nonostante i crescenti rischi, invitando tutte le parti in conflitto a garantire un livello minimo di sicurezza per le necessarie operazioni umanitarie. Dall’inizio dell’anno, sono almeno nove gli operatori umanitari uccisi e altri 12 quelli rapiti ancora nelle mani dei loro sequestratori. Il 1 luglio sono stati rapiti alle porte di Mogadiscio quattro operatori umanitari somali dell’ong italiana “Acqua per la vita”. Il 22 giugno è stato rapito il direttore dell’ufficio dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) nell’area di Mogadiscio, Hassan Mohamed Ali, mentre dallo scorso 21 maggio sono tenuti ostaggio due operatori umanitari italiani, Iolanda Occhipinti e Giuliano Paganini, e il loro collega somalo Abdirahman Yusuf Arale.

Le proteste a Mogadiscio

Nella giornata di ieri migliaia di somali, soprattutto sfollati, hanno manifestato alle porte di Mogadiscio. Stando a quanto riferisce oggi l’Afa (African press agency), la protesta ha avuto luogo nelle aree di Elasha e KM13, appena fuori Mogadiscio, dove hanno trovato rifugio circa 800.000 persone fuggite dalle violenze in atto nella capitale da oltre un anno. Uno degli organizzatori della protesta, Shamsa Dahiro, ha denunciato le ripercussioni sugli sfollati della crescente insicurezza in cui si trovano a operare le agenzie umanitarie: «Siamo stati costretti a vivere all’aperto, sotto la pioggia. E ora, la stessa gente che ci ha costretto alla fuga sta uccidendo e sequestrando le persone che ci aiutano. È inaccettabile».

Perché l’umanitario è nel mirino?

I rapimenti e le uccisioni di civili in Somalia non sono una novità (dall’inizio dell’anno il conflitto in corso è costato la vita a 2.136 civili, portando il bilancio a 8.636 morti dallo scoppio della ribellione delle corti islamiche nei primi mesi del 2007). E nemmeno il fatto che gli operatori umanitari occidentali siano diventati un target, in mezzo a un conflitto esacerbato come quello che si combatte su suolo somalo da oltre diciotto anni. Ma nelle ultime settimane c’è stato uno scarto. A confermarlo a VITA è Mario Raffaelli, delegato speciale per la Somalia del governo italiano: «Prima c’erano episodi singoli, ora una campagna contro gli operatori umanitari su larga scala mai vista prima» afferma. Rapimenti e uccisioni sono «collegati al deterioramento della sicurezza e alla degenerazione del tessuto sociale somalo, per cui accadono cose che prima non esistevano» spiega in prima istanza Raffaelli. Poi però ammette: ci sono due date a partire dalle quali l’«ondata contro l’umanitario» si è intensificata. I gueriglieri islamici che si oppongono al governo di transizione somalo hanno cominciato a prendere di mira anche gli operatori umanitari dal primo maggio, giorno del raid condotto dagli Stati Uniti per uccidere un leader delle Corti islamiche, Aden Hashi Ayro, ritenuto da Washington un esponente di Al-Qaeda: gli americani hanno bombardato la palazzina stava dormendo a Dusa Mareb, nel centro della Somalia, con un razzo partito da una nave da guerra in navigazione nell’Oceano Indiano.

L’altra data che segna una svolta è il 9 giugno, giorno in cui alcune figure di spicco dell’opposizione somala (il cosiddetto “Gruppo di Asmara”) hanno firmato un accordo a Gibuti che prevede il dispiegamento entro 120 giorni di una “forza internazionale di stabilizzazione” sotto l’egida delle Nazioni Unite, che dovrebbe sostituire l’esercito etiope, intervenuto alla fine del 2006 per sostenere il governo di transizione contro le corti islamiche, e da allora di stanza in Somalia. «Chi vuol impedire che questo negoziato venga implementato ricorre a vari mezzi compreso l’attacco ai cooperanti» afferma Raffaelli. «Nell’ultimo mese più volte il rappresentante speciale delle Nazioni Unite Ahmedou Abdallah ha dichiarato la volontà di riaprire gli uffici delle Nazioni Unite a Mogadiscio, e quest’intezione è stata ribadita dal Consiglio di Sicurezza».

Ma è un ritorno, quello dell’Onu in Somalia, che qualcuno non vuole. «Mi torna in mente l’omicidio di suor Leonella Sgorbati, una delle quattro suore italiane che erano rimaste a Mogadiscio: pochi giorni prima le Nazioni Unite avevano annunciato la riapertura degli uffici» ricorda Raffaelli. Le suore vivevano da trent’anni in Somalia, e godevano della protezione della popolazione. «Nonostate ciò Suor Leonella venne uccisa da un sicario, proprio in quel momento di passaggio, e il messaggio andò a destinazione: della riapertura degli uffici Onu si smise di parlare». Era il settembre 2006, pochi mesi prima dell’intervento dell’esercito etiope. Da allora le condizioni di sicurezza si sono sempre più deteriorate, tanto che anche le tre consorelle di suor Leonella sono state costrette a restare a Nairobi, in Kenya, e non sono più riuscite a tornare. Tra poco chiuderà anche Caritas Somalia che, in un momento di relativa tranquillità a maggio del 2006, era tornata a operare. Ad Afgooye, la città dove sono rifugiati gli esulli da Mogadiscio, Caritas collaborava con Islamic Relief, un’organizzazione non profit di ispirazione musulmana. L’obiettivo mai come ora sembra raggiunto: fare tabula rasa di chi cerca di tessere il dialogo e una rete sociale nel Paese delle armi e dei traffici illeciti.

L’accordo di Gibuti e la mediazione dell’Arabia Saudita

Il 10 luglio l’accordo di cessate il fuoco di Gibuti doveva essere firmato in modo ufficiale in Arabia Saudita, ma l’appuntamento è slittato a data da destinarsi. «Si dovrebbe cercare di allargare più possibile coinvolgimento di mediatori come l’Arabia saudita, che in questo mese ha cercato di ricucire gli strappi fra il gruppo che ha firmato l’accordo e il resto dell’opposizione somala» sostiene Raffaelli. «In un anno la situazione si è così deteriorata sul terreno che solo una visibile trasformazione di questi accordi in qualcosa di tangibile può rovesciare un trand che ha provocato danni enormi». Due milioni di somali vivono di aiuti umanitari, gli sfollati hanno superato il milione e, denuncia Medici senza frontiere, sono migliaia i bambini affetti da malnutrizione grave solo nell’area di Mogadiscio: questo il trand da invertire. Intanto, sempre secondo Msf, sono 700 somali sono morti in mare nel tentativo di raggiungere le coste dello Yemen e, da qui, un’altra possibile vita.

Le vittime tra gli operatori umanitari

L’ultima vittima della violenza è stata Mohamed Muhamoud Keyre, numero due della ong somala Daryeel Bulsho Guud (Dbg), finanziata dalla Germania, crivellato di colpi nel sud di Mogadiscio venerdì scorso. Sempre venerdì, un secondo operatore umanitario, che dirige l’organizzazione somala Sorda, partner del Programma alimentare mondiale (Pam), è stato gravemente ferito a colpi d’arma da fuoco mentre distribuiva viveri nel campo di Taredishe, a 13 chilometri a sud della capitale somala. Il 14 luglio scorso, uomini armati hanno ucciso un autista del Pam nel sud della Somalia. Ahmed Saalim è il quinto dipendente del Pam a rimanere ucciso quest’anno in Somalia. Il 19 maggio scorso, era stato ucciso a Chisimaio Ahmed Bariyow, direttore di Horn Relief, una delle principali organizzazioni umanitarie somale. Il 1 luglio sono stati rapiti alle porte di Mogadiscio quattro operatori umanitari somali dell’ong italiana ‘Acqua per la vita’. Il 22 giugno è stato rapito il direttore dell’ufficio dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) nell’area di Mogadiscio, Hassan Mohamed Ali, mentre dallo scorso 21 maggio sono tenuti ostaggio due operatori umanitari italiani, Iolanda Occhipinti e Giuliano Paganini, e il loro collega somalo Abdirahman Yusuf Arale.

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