Welfare

L’ultima parola spetta al giudice di pace

Lo ha stabilito la corte di Cassazione

di Redazione

In caso di domanda di asilo politico, il giudice di pace, prima di convalidare l’espulsione deve valutare “il concreto pericolo” che il clandestino corre rientrando nel Paese di origine anche se la Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato politico ha già dato parere negativo.

Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con la sentenza numero 10636 del 3 maggio 2010 ha accolto il ricorso di uno straniero (nato in Liberia) che chiedeva di restare in Italia come rifugiato politico, date le persecuzioni che lo aspettavano al rientro in patria. Il giudice di pace di Caserta aveva respinto la sua domanda di non lasciare il Paese per motivi umanitari.

Quindi, anche se la richiesta di asilo è respinta in sede amministrativa dalla commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato politico – come era avvenuto nel caso del rifugiato della Liberia – il giudice di pace deve valutare i concreti pericoli di persecuzione nel Paese d’origine, anche nel caso in cui il rifugiato non riesca a fornire abbastanza prove documentate.

Per la Cassazione i principi umanitari devono avere la precedenza, in base anche all’art. 19 della Bossi-Fini, che riconosce una misura di protezione umanitaria e a carattere negativo, che non conferisce, di per sé al beneficiario alcun titolo di soggiorno in Italia «ma solo il diritto di non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale, spettando al giudice di valutare in concreto la sussistenza delle allegate condizioni ostative all’espulsione o al respingimento».

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