Non profit

Lui, un bocconiano mite

«E io dico per fortuna». Intervista controcorrente a Luigino Bruni

di Giuseppe Frangi

Nei giorni dell’insediamento di Mario Monti la pressione mediatica dei “bocconiani” doc s’è fatta sentire. Alesina e Giavazzi sul Corriere della sera (editorale a doppia firma), Luigi Zingales dalla prima del Sole 24 Ore, Tito Boeri su La Repubblica.
Interventi a volte dai toni vagamente intimidatori, con una lista di richieste di un oltranzismo anche violento (il culmine lo ha toccato Zingales suggerendo «l’espropriazione delle fondazioni bancarie»?).
Luigino Bruni alla Bocconi ha lavorato otto anni, prima di lasciare via Sarfatti per approdare alla Bicocca dove ora insegna. È un economista mite, ma questa volta davanti all’assedio concentrico non ce l’ha fatta a tacere.
«Questi professori sono tutti quelli che ci hanno attaccato quando mesi fa insieme a Stefano Zamagni, Leonardo Becchetti e ad altri 200 studiosi abbiamo lanciato un appello ragionato per proporre la Tobin Tax. Per loro vincolare la finanza a orientamenti di carattere etico o sociale rappresenta un’eresia teorica. La finanza deve avere mani libere sempre. E anche Guido Tabellini, il rettore della Bocconi, è schierato su queste posizioni. Leggendo loro, come anche lavoce.info, si ha sempre la sensazione che la finanza speculativa sia la sola cura possibile per guarire dalla crisi. Per cui sono ostili a priori ad ogni regolamentazione. Peccato che la finanza speculativa non sia la cura, bensì la malattia?».
Anche Monti è figlio della Bocconi: lì si è laureato e lì è stato anche rettore per cinque anni, dal 1989 al 1994, prima di diventarne presidente. Come la mettiamo?
Ma Monti viene da una cultura diversa. I suoi anni erano quelli della Bocconi di Innocenzo Gasparini, un grande animatore culturale, uno che in anni non sospetti puntava sull’economia di territorio. Una cultura ben diversa da quella totalmente globalizzata di questi ultraliberisti. Mi permetto anche di dire che la Bocconi di quegli anni era anche più pluralista. Oggi mi sembra sia diventata una cattedrale del mercatismo.
È anche questo uno dei motivi che la convinsero a lasciare otto anni fa?
In parte sì. Era palese che il nostro approccio veniva visto come del tutto inutile. Etica e attenzione al sociale erano visti solo come dei freni alla crescita. Sembrava ci fosse spazio per un pensiero unico, ad esempio quello che escludeva che il sistema potesse mai andare in default. Evidentemente hanno sbagliato i calcoli ma continuano a voler dettare la linea.
Certo che la politica in questi anni ha lavorato per loro. Se non nelle intenzioni, almeno con la sua incapacità?
Questo è il dramma: abbiamo talmente incattivito la politica come luogo degli interessi e non più del bene comune. Ma qui c’è una responsabilità anche dei cattolici.
In che senso?
Con la Seconda Repubblica si sono accontentati di restare nel prepolitico. Ora penso che non sia più possibile restare in questa posizione. Ricorrendo alla metafora dell’incendio, possiamo dire che Monti è chiamato a spegnere le fiamme. Poi si dovrà ricostruire. E quello è compito che non può toccare a lui. Tocca di nuovo alla politica. Ma a quale politica se non si trovano risorse nel civile?
Il civile non è solo costituito dai cattolici?
Certo. Ma, lo dico da cattolico, non dobbiamo tirarci indietro e non vedere che la Chiesa è l’unica realtà che abbia ancora un popolo dietro di sé. I cattolici sono l’ultimo grande luogo dell’eccedenza su cui questo Paese può contare.
Eccedenza in che senso?
Nel senso di eccedenza rispetto ai propri interessi, verso il bene comune. Se non si genera da lì una classe dirigente nuova, da dove pensiamo che nasca? C’è bisogno di inventare qualcosa che vada oltre la forma partito e oltre lo schema destra-sinistra. Inventarsi una forma che stia tra il movimento e l’istituzione. Ma non ho dubbi: tocca ai cattolici inventarla. ,


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