Mondo
L’UE “chiude” con l’era degli aiuti allo sviluppo
“Dagli aiuti allo sviluppo alla cooperazione internazionale”. Con questo slogan si sono chiuse ieri le Giornate europee per lo sviluppo che hanno riunito a Bruxelles governi, istituzioni internazionali, società civile e settore privato dell’UE e del Sud del mondo. Al centro dei dibatti, la Conferenza internazionale in programma a luglio ad Addis Abeba per decidere vecchie e nuove forme di finanziamento da destinare allo sviluppo sostenibile. Una sfida che necessita una vera cooperazione a livello mondiale.
Ci abbiamo messo qualche anno, ma forse il termine “aiuti” è stato finalmento sostituita dalla “cooperazione internazionale” nelle nuove politiche dell’Unione europea verso i paesi del sud del mondo. Con questo slogan infatti si è conclusa la nona edizione delle Giornate europee di sviluppo, con l’evento conclusivo in cui si sono raccolte le sfide di governi, società civile e imprese da portare alla conferenza di Addis Abeba, tra il 13 e il 15 luglio, che avrà come tema centrale quello dei finanziamenti per i nuovi obiettivi di sviluppo sostenibili.
Gli aiuti non sono più al centro dello sviluppo
Una cooperazione che riguarda ogni ambito: “Ad Addis Abeba l’Ue arriva totalmente unita per parlare non solo di aiuto pubblico allo sviluppo, ma anche di altre modalità di finanziamento in cui siamo coinvolti”, ha dichiarato a Vita.it Gustave Martin Prada, direttore delle politiche di sviluppo e della cooperazione internazionale presso la Direzione generale sviluppo della Commissione europea (DEVCO), per poi citare con un entusiasmo forse eccessivo “il settore del commercio, in cui possiamo dare un grande contributo, dal momento che siamo il regime commerciale più aperto del mondo, anzi, gli unici a dare accesso totale ai paesi meno sviluppati”. Tra gli obiettivi individuati per l’agenda post-2015 il numero 17 comprende per la prima volta il ruolo del commercio nella lotta alla povertà, il sostegno alla realizzazione di un sistema di tassazione più equo e che eviti l’uscita di flussi illeciti dai paesi in via di sviluppo – per cui solo nel 2010 sono andati persi 859 miliardi di dollari, tredici volte l'aiuto dato dall'UE nel 2012 – e l’importanza di collaborazioni multilaterali tra ong, banche, privati e imprese.
Martin Prada ci tiene a ricordare che sono diversi gli ambiti in cui l’Europa è “leader”, soprattutto con gli aiuti al commercio e attività di blending (un mix di doni e crediti volti a mobilitare investimenti privati):. “Addis Abeba deve diventare la base del modo in cui l'agenda post 2015 sarà portata avanti”, si augura Martin Prada. Per quanto riguarda le fonti di finanziamento “i sustainable development goals sono totalmente diversi dagli obiettivi del millennio”, ha ricordato Prada. “Non si può pensare a una divisione di finanziamento per obiettivo. Stiamo parlando di un'agenda universale, in cui la maggior parte del lavoro deve essere fatto all’interno agli Stati, in cui l'aiuto allo sviluppo è un elemento per il loro raggiungimento, ma non il più importante”.
Oggi il settore privato ha già un ruolo centrale nella lotta contro la povertà, visto che nei paesi in via di sviluppo fornisce il 90% dei posti di lavoro.
Business e diritti umani: si può fare?
Ma le aziende italiane sono pronte a raccogliere la sfida? E le ong e la società civile sono in grado di dialogare con il mondo business quando si tratta di collaborare a progetti comuni e non solo fundraising?
“La strada è lunga” assicura Gianpaolo Silvestri, segretario generale della Fondazione Avsi, che agli European development days ha organizzato un panel sul tema business e diritti umani. “Le imprese devono capire quali sono i bisogni delle comunità e dal canto loro le ong possono svolgere un ruolo di mediatore”. Non è facile, ammette, soprattutto perché ci sono ancora pregiudizi da superare in entrambe le parti: “L’impresa deve capire il valore aggiunto di questa collaborazione, cioè di fare interventi sociali nella comunità dove l’impresa interviene e si radica”, sostiene Silvestri, che conferma l’importanza dell’inclusione del settore privato come attore dello sviluppo nella nuova legge della cooperazione italiana. Agli Edd15 Avsi ha portato l’esempio del lavoro di AVSI in Brasile, dove con Fiat l’ong italiana ha realizzato un progetto di inclusione sociale nelle favela di varie città. Il fulcro sta nel far capire alle aziende il vantaggio di migliorare le condizioni di vita della popolazione nel contesto in cui hanno investito e di provare a farlo con l’aiuto di una ong che già lavora sul campo.
“A cambiare la mentalità saranno i giovani che entrano oggi nel mondo della cooperazione”, sostiene Silvestri. Anche se forse un’accelerata di innovazione, con Addis Abeba che si avvicina, sarebbe necessaria.
Infatti, tra il 2000 e il 2014 la Commissione ha già erogato in media 350 milioni di euro l’anno per lo sviluppo del settore privato e con Addis Abeba gli ambiti di collaborazione si ampliano, per esempio nella fornitura di energia sostenibile.
Ma per includere settori che prima non erano presi in considerazione dagli obiettivi del millennio, come i cambimenti climatici o la giustizia sociale, i negoziati tra i paesi dell’Onu hanno portato alla definizione di ben 17 obiettivi, con 169 target da raggiungere. Numeri difficili da comunicare: “Sono troppi”, ha ammesso Martin Prada, ma è inevitabile che siano così tanti: ci sarà molto lavoro da fare sugli indicatori, ma anche su invito di Ban Ki Moon stiamo lavorando per far convergere aree di intervento in framework che potranno essere misurati e comunicati raggruppando più obiettivi”.
Il nuovo destino degli APS
Nonostante manchino poche settimane all’appuntamento di Addis Abeba, i negoziati sui finanziamenti allo sviluppo sono ancora intensi. L'obiettivo è quello di rendere il più efficiente possibile la valanga di miliardi che saranno destinati ai paesi beneficiari nell’era post-2015. E gli aiuti pubblici allo sviluppo, benché ridimensionati, non spariranno di certo. Per Roberto Ridolfi, direttore del Dipartimento Crescita sostenibile e Sviluppo presso la Comissione europea (DEVCO), “sarebbe opportuno che questi aiuti fossero riservati ai paesi più poveri”, laddove il settore privato europeo non è ancora del tutto pronto a investire. Non a caso, nelle misure adottate dal Consiglio europeo il 26 maggio, gli Stati membri dell’Ue hanno invitato “la Comunità internazionale a allocare le risorse laddove ce n’è più bisogno, in particola modo nei paesi meno sviluppati (LDCs) e quelli più fragili”. Per la prima volta, i paesi europei si sono impegnati a riservare collettivamente lo 0,20% del PIL a questi paesi. Ma dalle promesse ai fatti, si sa, c'è di mezzo un mare. Quello che separa l'Africa dall'Europa è diventanto tristemente noto per via della tragedia dei migranti. E se le promesse non verranno mantenute, non solo da parte dell'Europa, ma da tutti (ivi compreso i governi africani che ancora tanto devono fare nella buona gestione delle imponenti risorse domestiche o nella lota contro la corruzione), il rischio di nuove tragedie nel Mediterranneonell'era dell'agenda post-2015 rimarrà altissimo.
Foto di Ervan Wirawan (Indonesia), tra i nove giovani premiati da un concorso fotografico organizzato da EuropeAid e che avranno l'opportunità di visitare Expo 2015.
Articolo realizzato nell'ambito di una partnership tra VITA e gli European Development Days (EDD15).
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