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L’UE al bivio per consolidare la sua leadership sulla cooperazione internazionale

Si sono chiuse le Giornate europee dello sviluppo, l’eventuale annuale organizzato dalla Commissione UE che riunisce leader internazionali, decision makers e operatori del settore. L’undicesima edizione è stata segnata dalla forte partecipazione dell’Italia, dallo spazio (eccessivo per la società civile) concesso al settore privato e dalla consapevolezza che nell’era Trump l’UE può e deve consolidare la sua leadership nella cooperazione allo sviluppo. Vita.it vi propone una sintesi molto parziale.

di Joshua Massarenti

Un caos euclideo. A questo somigliano le Giornate europee per lo sviluppo, l'evento annuale che – su impulso della Commissone Ue – riunisce leader politici, alti rappresentanti di istituzioni internazionali, decision makers e operatori della Cooperazione internazionale. I dati ufficiali parlano di 10 capi di Stato e di governo presenti, tra cui Macky Sall (Senegal), Paul Kagame (Rwanda), Alpha Condé (Guinea-Conakry), Nana Akufo-Addo (Ghana), 36 vice-presidenti e ministri, otto commissari europei, Christine Lagarde (direttrice del Fondo monetario internazionale) e Amina Mohamed (vice Segretaria generale delle Nazioni Unite).

Dalla valanga di eventi, incontri, workshop, seminari, concerti che gli EDD2017 hanno proposto ai 7.000 partecipanti annunciati dalla Commissione, abbiamo cercato di fare una sintesi ovviamente molto parziale di quello che si è visto e sentito, ivi compreso dietro le quinte.

Intanto possiamo dirlo. Dopo un decennio di (quasi) latitanza, l'Italia ha fatto bella figura proponendo due eventi, sulla cultura e il business inclusivo, che rispecchiano alcuni nuovi orientamenti dell'UE sullo sviluppo, ovvero la strategia della Mogherini per fare della cultura uno strumento della politica estera europea e il coinvolgimento sempre più grande del settore privato nella cooperazione allo sviluppo dell’Ue. L'apertura degli EDD17 con una sessione inaugurale sulla creatività e l’industria culturale co-organizzata dall'Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) è stata una piccola vittoria politica sia per la cooperazione italiana che per un settore spesso marginalizzato nei programmi di cooperazione, soprattutto in Italia. Come ricorda il responsabile delle relazioni esterne e della comunicazione dell’Aics, Emilio Ciarlo nell’intervista che ci ha rilasciato alla viglia degli EDD, la cultura sarà un settore prioritario della cooperazione italiana. Le sfide non mancano, da quelle più grande – come il sostegno strutturale all’industria culturale di un paese – a quelle più piccole. E le sorprese non mancano. In un’altra intervista, questa volta concessa da Rokia Traoré, la star della musica maliana sottolinea ad esempio il bisogno assoluto di formare “manodopera culturale, il che comprende le maschere nei teatri. Per funzionare, il mondo culturale africano deve partire anche da lì”.

Dopo un decennio di (quasi) latitanza, l'Italia ha fatto bella figura proponendo due eventi, sulla cultura e il business inclusivo, che poi rispecchiano alcuni nuovi orientamenti dell'UE sullo sviluppo.

“Investire nello sviluppo”

E' stato il tema centrale e lo slogan di questa undicesima edizione. Ma investire su cosa, a favore di chi e con chi? “La gente, il pianeta, la prosperità, la pace e le partnership”, si legge nel programma di questi EDD. Tutte parole chiave che poi stanno al cuore del nuovo Consenso europeo per lo sviluppo firmato dalle istituzioni UE sulla scia dell’Agenda 2030 adottato dalle Nazioni Unite due anni fa a New York. Sebbene strategico, perché definisce le nuove linee strategiche dell'UE sulla cooperazione allo sviluppo su cui gli Stati Membri si sono impegnati ad allinearsi, il documento rimane poco vendibile ai media e spesso i governi europei continuano a difendere gli interessi nazionali. Peccato perché di buona fattura secondo molti esperti e circoscritto in un'agenda internazionale dello sviluppo segnata dal vuoto lasciato dagli Stati Uniti nella cooperazione internazionale. Come sappiamo, anche se tirarsi fuori dagli accordi (non vincolanti) di Parigi non è una passeggiata, il ritiro statunitense è ormai dichiarato sul clima, mentre per quanto riguarda la strategia complessiva dell’amministrazione Trump sugli impegni degli Usa in materia di cooperazione internazionale, Washington sostiene di essere ancora in fase di revisione. Una decisione in senso negativo sarebbe un colpo molto duro inferto agli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Agenda 2030) che, a differenza dei precedenti Obiettivi del Millennio (200-15) chiama in causa tutte le nazioni del pianeta per raggiungere target comuni sottoscritti a New York due anni fa. In altre parole, nell'era globale le responsabilità sono globali.

In attesa che l'inquilino della Cassa Bianca si decida, il flop del G7 ci deve ricordare che senza gli Stati Uniti, la strada per sradicare la povertà e ridurre le disuguaglianze nel mondo rischia di essere tutta in salita. “Può l’Unione Europea colmare il buco statunitense?”. Questa la domanda che ho rivolto a Stefano Manservisi, Direttore generale della cooperazione allo sviluppo dell’Ue. La risposta è stata decisa: “No, ognuno si deve assumere le proprie responsabilità”. Ma se Bruxelles e gli Stati Membri europei non faranno i pompieri per salvare la casa Sviluppo dall’incendio che sta provocando Donald Trump, Manservisi è altrettanto convinto che per “l’Unione Europea si presenta un’occasione enorme per consolidare la sua leadership nella cooperazione internazionale”. Del resto, l’Ue lo ricorda ogni volta che può: “Con oltre il 50% dei finanziamenti mondiali, siamo i primi donatori del pianeta”. Ed è forse bene tenere presente che a differenza di Stati Uniti, Giappone o Canada, con il Consenso europeo per lo sviluppo l’Ue è l’unico attore che ha ufficialmente sposato con obiettivi chiari la volontà di raggiungere gli obiettivi fissati dall’Agenda 2030.

Detto questo, l’Unione sa altrettanto che non potrà fare tutto da sola. E infatti agli EDD si è sentito citare la Cina a più riprese. Di colpo, Pechino potrebbe diventare un alleato prezioso, nonostante i divari che ci separano con i cinesi, special modo sullo stato di diritto e il rispetto dei valori fondamentali come la libertà di espressione.

Di fronte al vuoto che rischiano di lasciare gli Stati Uniti, “l’Unione Europea ha un’occasione enorme per consolidare la sua leadership nella cooperazione internazionale”, sostiene il Direttore generale della Cooperazione allo sviluppo dell'Ue, Stefano Manservisi.

Il settore privato sorride, la società civile meno

C’è un altro attore che è chiamato a giocare un ruolo sempre più importante nei prossimi anni: il settore privato, che non a caso si è rivelato il grande protagonista delle Giornare europee per lo sviluppo, con la società civile che ha storto il naso per lo spazio eccessivo concesso al mondo delle imprese (piccole, medie e grandi). Di sicuro, non lo hanno avuto le diaspore, le cui rimesse sono due, se non tre volte superiori agli aiuti pubblici allo sviluppo. Ma il trend appare più che mai irreversibile. Lo hanno capito bene i capi di Stato e di governo africani giunti a Bruxelles non soltanto per affrontare questioni politiche, ma anche per discutere di sviluppo economico e, in alcuni casi, firmare nuovi accordi (come quello tra il Mali e la Banca europea di investimenti per un prestito pari a 55 milioni di euro nel settore dell’acqua).

Da cui la necessità di seguire da molto vicino il blending – modalità di aiuto che si caratterizza per un mix di doni e crediti volti a mobilitare investimenti privati – su cui da svariati anni la Commissione europea sta puntando molto per generare nuovi finanziamenti. Se lo strumento offre l'opportunità di spingere le aziende a investire nei paesi più poveri rispettando i diritti sociali e ambientali, le conclusioni di un rapporto pubblicato alla vigilia di queste giornate europee per lo sviluppo dal Trade Union Development Cooperation Network (ITUC-TUDCN), fanno capire che l'uso che se ne fa desta non poche perplessità. Oggi, più che mai, l'Italia ha forse un ruolo da giocare, per non lasciare tutto lo spazio ai francesi e ai tedeschi che continuano a farla da padrona.

Oltre il blending, c'è da seguire il nuovo Piano di investimenti esterni dell’Ue annunciato dalla Mogherini e da Juncker nel settembre 2016 per favorire gli investimenti privati in Africa e nei Paesi del Vicinato. A circa dieci mesi di distanza dalla sua presentazione, le discussioni tra le tre istituzioni europee per approvare il piano sono in fase di stallo. Dietro le quinte, si sta svolgendo una battaglia fino all'ultimo respiro tra la Commissione europea e la Banca europea d'investimenti su chi controllerà i fondi. Come ci ha detto il vice ministro Mario Giro nell’intervista rilasciata a Vita.it durante la sua presenza ai Dev Days, questo scontro riflette anche le divergenze che sussistono all’interno dei vari Stati Membri, tra ministeri degli Esteri dell’UE e quelli delle Finanze, con la Francia e la Germania a favore della BEI, e l’Italia in posizione neutrale.

A circa dieci mesi di distanza dalla presentazione del nuovo Piano di investimenti esterni dell’Ue annunciato dalla Mogherini e da Juncker, le discussioni tra le tre istituzioni europee per approvare il piano in via definitiva sono in stallo.

Largo ai giovani

Ma gli EDD, segnati tra l'altro da un Forum economico Ue-Africa, non si sono limitati al business. Anche i giovani hanno avuto spazio. A giustificare la scelta della Commissione di puntare su di loro sono i numeri. Da qui al 2050, in Africa si conteranno parecchie centinaia di milioni di ragazzi e ragazze che chiederanno un futuro migliore dei loro genitori. E questo non solo fa tremare mezza Europa, ma prima ancora i governi africani. La creazione di nuovi posti di lavoro è un'ossessione per tutti. Ma di che tipo? Il rischio è di adottare nascondendosi dietro a belle parole lo stesso approccio di Trump con "America First": "Job first", indipendentemente dagli impatti sociali ed ambientali.

Ma i giovani leader africani, cosa ne pensano? Un pensiero unico non esiste ovviamente, ma quelli che ho incontrato sembrano particolarmente sensibili a due problemi: il lavoro e la difesa dei loro interessi da parte della classe politica. Ora, come ricorda Jeune Afrique, più della metà dei capi di Stato africani ha più di 60 anni, con alcuni di loro saldamente al potere da oltre 35 (Museveni, Biya, Sassous-Nguesso, Dos Santos, Mswati III e Obiang Nguema). “In alcuni paesi è un problema”, mi assicura una giovane avvocatessa del Botswana, Chawapiwa Masole, nota per attività di advocacy che mirano a influenzare i deputati del parlamento botswanese per l’adozione di leggi a favore dei giovani e la parità di genere. “Se vogliamo cambiare le cose e far sì che gli obiettivi di sviluppo sostenibile non rimangano soltanto sulla carta, è necessario seguire con estrema attenzione le procedure legislative di un Parlamento e le loro implementazioni”. Una sfida su cui il Parlamento europeo potrebbe dire la sua e che vede nell’eurodeputata Cecile Kyenge, ospite anche lei della plenaria di chiusura, particolarmente impegnata nel rafforzare i rapporti tra deputati europei e africani a favore della tutela dei diritti fondamentali, delle donne e dei giovani. Per Chawapiwa Masole, “è ovvio che se le condizioni di vita dei giovani africani non miglioreranno nei prossimi decenni, molti di loro saranno tentati di lasciare il proprio paese”, con una minoranza estremamente esigua pronta a raggiungere l’Europa.

Se vogliamo cambiare le cose e far sì che gli obiettivi di sviluppo sostenibile non rimangano soltanto sulla carta, è necessario seguire con estrema attenzione le procedure legislative di un Parlamento e le loro implementazioni.

Chawapiwa Masole, giovane avvocatessa botswanese.

Le migrazioni tra sviluppo e sicurezza

A fronte delle tragedie che si accumulano nel Mediterraneo e nel Sahel, e delle risposte che l’Unione Europea sta ufficialmente cercando di dare per contrastare i flussi migratori irregolari in Africa attraverso azioni di sviluppo e sicurezza, le migrazioni sono state ovviamente oggetto di discussione agli EDD. Fedele alla sua linea politica, l’eudeputata Elly Schlein ha insistito durante una sessione plenaria sulla necessità di tracciare una frontiera netta (questa sì utile) tra i programmi e i progetti che riguardano la lotta contro la povertà, e quelli a favore della sicurezza “altrimenti si corre il rischio di ridurre la lotta contro le cause profonde dei flussi migratori – tra cui la povertà – alla gestione delle frontiere esterne. Oggi questo rischio è già una realtà”, sostiene Schlein in riferimento all’utilizzo dei finanziamenti del Fondo fiduciario europeo per l’Africa. Dal canto suo, Boubou Cisse, il ministro maliano dell'economia ha ribadito “che assieme alla lotta contro la povertà, la sicurezza è una priorità assoluta per molti governi africani minacciati dal terrorismo e dai trafficanti di droga, di armi e di esseri umani”. A questo si aggiunge un paradosso: che da sempre lo sviluppo ha favorito i movimenti migratori. “Ma questo non si può dire”, mi assicura un funzionario dell’UE, “altrimenti casca il mondo”. Di sicuro, la presenza in Mali la scorsa settimana di Manservisi affianco all’Alto Rappresentante dell’Ue per gli Esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, dimostra che ormai l’Unione vuole dialogare con i governi africani attraverso un “approccio complessivo” che vede lo sviluppo e la sicurezza non più dissociabili. Anche con tutta la buona volontà, su cui la società civile ha tanti dubbi, non sarà facile delinearne i confini. Ma da Bruxelles, Commissione e Consiglio dicono che non c’è alternativa possibile.

Assieme alla lotta contro la povertà, la sicurezza è una priorità assoluta per molti governi africani minacciati dal terrorismo e dai trafficanti di droga, di armi e di esseri umani.

Boubou Cisse, ministro maliano dell’economia.

Di sicuro, i governi africani non sembrano particolarmente sensibili alle tragedie dei loro migranti. "Tra la povertà diffusa, il terrorismo, il clima, la corruzione, i conflitti e le crisi umanitarie", ovvero le cause che stanno all'origine delle tragedie del Mediterraneo, "abbiamo già troppe sfide da affrontare", mi assicura un ministro africano. "Ma qualcosa va fatto, lo sappiamo". Ecco perché l’invito di Mario Giro al presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Fakir, di venire a Lampedusa è un’ottima iniziativa. “Spero che accetti”, assicura il nostro viceministro degli Esteri e della cooperazione internazionale.

Tra le cause delle migrazioni forzate, si è parlato ovviamente delle crisi umanitarie che stanno colpendo alcuni paesi africani, tra cui il Sud Sudan. Ancora una volta sono i numeri a far tremare i polsi. Nel suo appello lanciato il 22 febbraio scorso, il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, aveva chiesto 4,4 miliardi di euro alla comunità internazionale entro fine marzo per venire in aiuto a 20 milioni di persone a rischio di fame e siccità. Ad aprile, solo il 20% dei fondi richiesti erano stati colmati. Oltre all'emergenza assoluta, si pone anche il problema di far convergere le strategie umanitarie con quelle di sviluppo. Nei paesi più fragili, separarle è impossibile. Perché altrimenti si finisce per fare come in Ciad, dove le persone (sopra)vivono in uno stato di crisi umanitaria (quasi) permanente. Anche in questo caso, sarà opportuno seguire l’interesse crescente del settore privato, come ci dimostra un’inchiesta pubblicata il mese scorso da Le Monde Diplomatique sul coinvolgimento di colossi come Ikea nei campi profughi africani.

Davide contro Golia

Infine, sebbene sia un fenomeno che non fa ormai più notizia, alcuni rappresentanti di organizzazioni della società civile che ho incontrato agli EDD continuano a lamentarsi delle difficoltà di accesso ai fondi europei e internazionali. Oltre a cantare sui palcoscenici di mezzo mondo, Rokia Traoré dirige una Fondazione (Fondation Passerelle) per promuovere l'industria culturale nel suo paese. Grazie alla sua notorietà, si sente quasi una privilegiata, ma conosce “pochissime organizzazioni non profit africane in grado di impiegare delle risorse umane totalmente dedicate alla ricerca di fondi e alla stesura di progetti europei. Nella stragrande maggioranza dei casi, è una missione impossibile. Quindi di che aiuto stiamo parlando? I fondi favoriscono soltanto le grandi strutture non profit. Le altre spariscono o sopravvivono con poco o niente". Del resto, lo stesso rischio chiama in causa le ong e le associazioni non profit in Europa. Ironia della sorte, la Commissione europea dice di non avere più le risorse umane sufficienti per seguire piccoli progetti. La via maestra sono i consorzi. Anche se al di là delle alleanze, sullo sfondo è in corso da tempo una battaglia inevitabile tra non profit europee e quelle africane per l'accesso ai fondi dell’Ue.

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