Mondo
Luca Doninelli: La Milano dei lunedì
Milano ha avuto momenti esaltanti, dal Boom Economico alla Milano da bere fino alla Milano post-Expo. Ma la sua vera natura non sta in quei momenti. Sta nei suoi lunedì, sta nella quotidianità. E oggi finiti i luoghi comuni, resta l'inquietudine. Alla ripresa, qualcuno si presenterà, altri no. Interi settori rischiano la falcidia. Intere famiglie rischiano. Ma il nuovo pensiero su Milano nascerà se si guarderà ai poveri (che saranno molti di più) e ai giovani
Immaginare Milano al tempo della ripresa non può non infliggere – anche soltanto l'atto dell'immaginare – un filo di dolore. Le formule che adoperiamo finiscono in amarezza. Andrà tutto bene? Chi ce la farà? Sento dire: chi avrà la forza di cambiare, di voltare pagina: chi si saprà rinnovare, perché niente sarà come prima.
Ma, finiti i luoghi comuni, resta l'inquietudine. Al giorno della riapertura, qualcuno si presenterà, altri no. Interi settori rischiano la falcidia. Intere famiglie rischiano di non avere più da mangiare – lo ripete il Papa tutti i giorni, e Milano non può chiamarsi fuori. Quante piccole imprese, quante aziende artigianali, quanti ristoranti riapriranno?
I ricchi ce la faranno, immagino. I negozi della moda e del lusso non chiuderanno. E' la legge della foresta, ben nota a tutti: nell'abbondanza qualcosa resta anche per il povero, mentre nella ristrettezza per il povero è dura perché è la ricchezza a reggere questo mondo.
Ma il punto non è questo. In un mondo in cui tutto viene disegnato (si dice: ridisegnare una casa, una squadra di calcio, il sistema museale ecc.) la guerra è sui disegni, sui progetti. Se il progetto vincente sarà buono si ripartirà, se non sarà buono (come temo) perderemo altro tempo.
Stefano Boeri, milanese innamoratissimo della sua città, immagina – quanto è importante immaginare le nostre città, oggi più che mai! – un nuovo decentramento, un ritorno, ma non più su base agricola, ai borghi, ai piccoli capoluoghi. Il covid-19 ci ha insegnato che una società un po' più diradata si conserva meglio. Se la perdita di centralità del settore primario ha gettato nel languore (culturale innanzitutto) paesi e paesini, oggi le comunicazioni possono produrre città diffuse, di cui quei centri potranno far parte mantenendo la loro fisionomia, senza il vecchio cannibalismo della città.
Del resto, le infrastrutture del paese crollano una alla volta, a cominciare dai ponti, ed è perciò il caso non solo di ricostruire meglio di prima, ma di riprogettare in modo diverso.
Penso però a due categorie che ben difficilmente potranno godere dei vantaggi di queste novità per ora sulla carta. Fra dieci anni forse saremo tutti più felici, ma da maggio che ne sarà dei poveri? Che opportunità daremo ai giovani?
Prima di tutto, non è bello dirlo ma ci saranno più poveri, forse molti di più. Poveri stranieri e poveri italiani. Persone cioè che avranno serie difficoltà a dar da mangiare alla loro famiglia e a mangiare loro stessi. Milano ha sempre avuto un occhio attento per le situazioni di necessità, riuscendo a mantenere il problema (che era grosso anche negli anni felici 2014-19) un po' sottotraccia. Si è parlato, sì, di poveri e di periferie, ma altri temi hanno ottenuto maggiore visibilità.
Adesso sarà differente: o la città si concentrerà su questo problema, o questo non sarà un problema tra gli altri, ma determinerà l'orientamento generale di tutti, con i sacrifici che ne conseguono, oppure tutto il tessuto connettivo della città sarà più debole, e un nuovo virus – quello della sfiducia, con tutte le sue conseguenze – prenderà stanza a Milano. Insomma: i poveri dovranno diventare una priorità per tutti, da questo dipenderà il destino di Milano, ossia la forma che assumerà, la sua fisionomia culturale, la sua immagine nel mondo, il suo messaggio, la sua importanza nell'economia globale. Da come tratteremo la povertà dipenderà lo stile di vita, il fascino stesso di Milano, la sua attrattiva: che va comunque rifatta, perché la Milano dello scorso quinquennio appartiene al passato remoto, e rifarla sarebbe ridicolo.
E aggiungo: forse avremo l'occasione di parlare un po' meno di "stranieri" o di "immigrati". Adesso abbiamo bisogno davvero gli uni degli altri e a me sembra che quelle due parole potrebbero anche essere messe in quarantena, mentre noi (persone) ricominciamo a uscire.
L'altro tema sono i giovani. Non mi riferisco ai giovani ricchi, ma a quelli com'ero io da giovane e come sono i miei figli: gente normale, milanesi napoletani toscani valdostani nigeriani asiatici ucraini egiziani, gente con pochi soldi, con la voglia di fare e a corto di mezzi.
Sono un grande popolo, qui a Milano, a cominciare dagli universitari: molti di loro (decine e decine di migliaia) vengono da altre regioni, da altri paesi e tutti devono trovare una sistemazione per poter frequentare l'università e, poi, per poter mettere su famiglia.
Dobbiamo garantire loro una vita decente, non gravata da mille fatiche. I nostri figli e i loro amici di ogni stirpe non possono permettersi il tenore di vita che ci permettevamo noi da ragazzi, negli anni Ottanta e Novanta. Devono poter fare figli e tirarli su in una Milano decente e accogliente, dare nuova linfa all'Italia, nuova energia, nuovo pensiero.
Questo costa fatica ma occorrono le condizioni per poterla fare, questa fatica. Quanti di loro possono permettersi una casa decente, a Milano? Il sindaco Sala ha parlato ripetutamente di questo problema, ma se l'intera città non se ne fa carico saranno parole nel vuoto. Su questo punto mi permetto di dire che il ridimensionamento della Milano post-pandemia potrebbe offrire condizioni più ragionevoli per chi ha il futuro nella mani.
A questo proposito: mi aspetto che l'Università a Milano torni protagonista, perché è lì che il signoficato morale di un paese si afferma. Noi non abbiamo avuto stima delle nostre università, e ne paghiamo le conseguenze. In Francia, in Germania, in Inghilterra non è andata così. Per i francesi, la parola "Francia" rappresenta un valore, per noi italiani (nonostante Dante e il Rinascimento) non è così con l'Italia.
Mariella Carlotti, un'insegnante fiorentina, chiede giustamente che ai ragazzi della Maturità venga chiesto come hanno vissuto il lockdown: non come premessa all'esame, ma come parte essenziale di esso, perché la forza della cultura si misura sulla sua capacità di incidere sui nostri giudizi, e questa capacità va coltivata oppure si perde.
Abbiamo perso molte cose durante questa pandemia. Per esempio, se n'è andata – nelle Rsa ma anche nel silenzio di tante case – gran parte di una generazione di persone da cui avevamo ancora molto da imparare: soprattutto in Lombardia. Se n'è andato un pezzo di memoria.
Ma forse (e sottolineo forse) qualcosa si potrà ritrovare. Milano ha avuto momenti esaltanti, dal Boom Economico alla Milano da bere fino alla Milano post-Expo. Ma la sua vera natura non sta in quei momenti. Sta nei suoi lunedì, sta nella quotidianità, sta nella sua capacità di rimettersi, ogni giorno, a costruire. La sua vita di città è fatta dei pezzetti di vita buona che i milanesi hanno sempre cercato di costruire, casa per casa, quartiere per quartiere, dramma per dramma.
Milano non è un progetto, è un'antropologia. Dobbiamo aspettarci molto, in questosenso, dagli artisti e dalle istituzioni che li sostengono: gallerie, musei, teatri, case editrici. Impareremo a servire l'uomo, a tener conto del mercato senza sottostare al suo diktat, a dire quello che ci sta a cuore piuttosto che dire quel che "va detto"? Ecco una scommessa.
Per finire. Ci vorrà anche molta ironia, che a Milano non è mai mancata. Perché è quasi impossibile contribuire alla costruzione della casa comune se ciascuno di noi non ha una sua casa, non quella di muri ma quella dentro il cuore. Io so una cosa: questa è l'ironia, il segreto che dà consistenza al nostro modo di guardare tutto. Una gioia, un amore, una speranza, una memoria, ma mia-di-me. Da non disperdere in mezzo ai grandi progetti, o in mezzo alla depressione che potrebbe venire.
Luca Doninelli, scrittore, ha pubblicato nel 2004 un saggio Il Crollo delle Aspettative. Scritti insurrezionali su Milano, che ha aperto una lunga stagione di dibattiti sulla città lombarda, sui suoi problemi, sul suo futuro. 16 anni dopo gli abbiamo chiesto di provare a immaginare una ripartenza per la città che tanto ama.
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