Welfare

Lotta al caporalato: se i braccianti sikh alzano la testa

Nel suo libro intitolato “Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana”, il ricercatore Marco Omizzolo racconta la lotta della comunità sikh e delle migliaia di braccianti indiani sfruttati nelle aziende agricole dell’Agro Pontino

di Anna Toro

Prima una tesi di laurea sul tema quasi imposta dal suo professore, poi l’incontro con uno dei tanti indiani sikh che vedeva ogni giorno passare in bicicletta lungo la statale pontina, che collega Roma a Terracina. Le domande che da sempre gli ronzavano in testa hanno iniziato a prendere forma: chi erano davvero questi lavoratori “educati e silenziosi” che a migliaia, barba lunga e turbante in testa, andavano in bici a prestare la loro manodopera nei campi e nelle serre dell’Agro Pontino? Parte così, quasi per caso, un’indagine che in tutto durerà 12 anni e che porterà Marco Omizzolo a scoprire un mondo fatto di sfruttamento e condizioni di lavoro impossibili, di violenza e agromafie, caporalato e sopraffazione, ma anche di riscatto e autodeterminazione. Omizzolo, oggi ricercatore e sociologo Eurispes, racconta tutto nel suo libro intitolato “Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana”, uscito di recente per Fondazione Feltrinelli. Una storia vissuta anche sulla sua pelle, dato che, adottando la metodologia classica dell’osservazione partecipata, ad un certo punto decide di andare a vivere insieme agli indiani sikh per un anno e mezzo, fino alla decisione di indossare lui stesso il turbante e infiltrarsi per tre mesi nei campi tra i braccianti.

«Da infiltrato vedo una situazione drammatica – racconta il ricercatore durante la presentazione romana del libro, avvenuta al mercato ecologico EcoSolPop presso lo spazio sociale autogestito Scup – Persone impiegate anche 14 ore al giorno in serra o in campo aperto, obbligate a chiamare “padrone” il datore di lavoro, a fare tre passi indietro e abbassare la testa, spesso picchiate, a cui era vietato denunciare gli infortuni sul lavoro». Fino ad episodi di vera e propria riduzione in schiavitù, come la scoperta di un ragazzo sikh che durante la notte veniva chiuso a chiave dentro un capanno degli attrezzi. «E’ lì che i racconti che mi venivano fatti in precedenza hanno acquisito corpo e sangue, ed è sempre lì che mi rendo conto della necessità di fare qualcosa di concreto per queste persone».

Nasce così il “Progetto Bella Farnia” – dal nome del residence abbandonato in Sabaudia, abitato oggi in larga parte da indiani sikh provenienti dal Punjab – realizzato insieme all’associazione In Migrazione: uno spazio polifunzionale all’interno della comunità, in cui veniva insegnato l’italiano, con attenzione speciale alla traduzione dei contratti e all’insegnamento dei diritti del lavoro. Compresa la lettura della busta paga. «Spesso il padrone segnava solo 3-4 giorni pagati a fronte dei 28 realmente lavorati, le paghe non raggiungevano quasi mai i 300 euro mensili – racconta Omizzolo – Abbiamo spiegato loro cos’è il caporalato, la tratta, lo sfruttamento, cosa significa fare denuncia». Un percorso di dialogo e fiducia che, nonostante l’interruzione dei finanziamenti al progetto nell’agosto 2015, è continuato. Fino a sfociare, il 18 aprile del 2016, in uno dei più grandi scioperi mai organizzati dai braccianti indiani: in 4 mila si sono riuniti sotto la prefettura di Latina, incuranti delle minacce e intimidazioni da parte dei padroni delle aziende. «A quelle mobilitazioni si sono affiancate le occupazioni delle serre e dei campi agricoli, un’esperienza straordinaria. E poi le denunce: oltre 150, fatte contro padroni e “padrini”, sfruttatori, trafficanti, ma anche avvocati e commercialisti. Siamo diventati il granello di sabbia che ha mandato in crisi il sistema».

Seguiranno altre denunce, blitz, arresti e processi, così come nuovi scioperi. Purtroppo però, le mafie che stanno dietro il caporalato hanno saputo riorganizzarsi in fretta. «Sono davvero come una rete neuronale che modifica la propria struttura in relazione agli stimoli favorevoli o contrari che la riguardano» scrive il ricercatore nel libro, e racconta delle relazioni costruite con le forme peggiori dell’accoglienza, andando a sostituire i braccianti indiani con i migranti africani reclutati in alcuni Cas. Situazione che si perpetua anche e soprattutto ora che l’accoglienza è stata in buona parte smantellata. «Abbiamo un sistema in cui, per via dei Decreti Sicurezza e non solo, si costruisce per via normativa quell’emarginazione che porta allo sfruttamento anche lavorativo – commenta Omizzolo – Quello dell’agromafia è un business che, secondo l’ultimo rapporto Eurispes, da solo produce 25 miliardi di euro l’anno, quasi una Finanziaria». Una piaga che non riguarda solo l’Agro Pontino ma coinvolge tutto lo stivale, da nord a sud, come dimostra anche la denuncia lanciata appena pochi giorni fa dalla Relatrice Speciale dell'Onu per il diritto all'alimentazione, Hilal Elver: secondo l’esperta il sistema alimentare italiano poggerebbe in larga parte su una serie di ingiustizie ai danni delle categorie più deboli, soprattutto i lavoratori migranti, che costituiscono secondo l’Onu metà della manodopera agricola italiana.

Omizzolo è d’accordo, ma guarda anche avanti, alle conquiste di questi anni di organizzazione e di lotta, in cui la comunità di indiani dell’Agro Pontino – fatta di 30 mila persone di cui 18 mila impiegate in condizioni di grave sfruttamento – si è fatta finalmente protagonista attiva delle battaglie per i propri diritti. E pensa alla miriade di iniziative agricole sorte in tutta Italia di tipo mutualistico e solidale, in opposizione al circolo vizioso di sfruttamento imposto dalla Grande Distribuzione Organizzata. «L’idea per il futuro è di creare una produzione autonoma anche nel Pontino fatta da ex braccianti indiani, lanciando così dei messaggi: primo, produrre in modo pulito è possibile; secondo, un bracciante può anche uscire dalla sua condizione e diventare anche contadino o produttore; terzo, vorremmo organizzare un luogo, magari un agriturismo da una struttura confiscata alle agromafie, che metta al centro la cultura indiana in tutti i suoi aspetti».

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.