Con un tempismo da bradipo sono riuscito a recuperare il numero di dicembre di Wired (Italia). Il giornalaio, gentilissimo, me l’ha tirato fuori dallo scatolone dei resi. In copertina Loretta Napoleoni, l’economista divenuta famosa (almeno per me) con il best seller economia canaglia di un paio d’anni fa. Lei campeggia in copertina con uno strepitoso look da casalinga americana anni ’50 e scrive di nuova economia, anzi di pop economy, tutta collaborazione, scambio, baratto, riportando così alla ribalta il carattere collettivo della produzione e del consumo. Funzioni quest’ultime che a differenza del recente passato, sono sempre più inscindibili. Un primo tema dell’articolo è il propellente di quella che viene presentata come una rivoluzione del sistema economico e sociale, tutt’altro che in fieri, anzi che ha aggiunto alcuni importanti risultati. Un mix di fattori eterogenei, accomunati dal fatto di porre sfide di sistema: problematiche ambientali non più derogabili, una generazione (i millennium) sostanzialmente esclusa, a differenza dei loro padri, dai processi di produzione, la disponibilità di tecnologie web2.0 che diventano di uso comune e che consentono di scalare l’innovazione a livello globale. Secondo tema, altrettanto rilevante, è la comunità, vituale o naturale poco importa, che fa da sistema di governance e da base produttiva della pop economy. Il successo di queste iniziative è legato alla disponibilità di legami sociali che vanno ben oltre lo scambio di equivalenti, chiamando in causa importanti elementi di legittimazione e apporti di risorse secondo schemi partecipativi. Terzo tema, la rimodulazione in servizi dei beni di consumo. Un processo pressoché inarrestabile dal quale non sfuggono oggetti materiali per antonomasia come le automobili. Ci sono molti stimoli per le organizzazioni sociali. Assieme a quel particolare effetto di straniamento di cui soffro ormai da qualche tempo, per cui mi sembra si parli di questioni inerenti proprio queste organizzazioni – cooperative mutue, imprese sociali, organismi non profit – ma poi non le trovo mai citate. Pop economy diventerà un libro. Magari nel frattempo un tour nella riserva indiana dell’economia sociale (o che di si voglia) potrebbe essere utile per raccogliere qualche elemento di apprendimento, seppur maturato in epoche e in contesti diversi. Pur scontando tutte le derive del caso (o forse proprio considerando anche queste), si tratta di organizzazioni che della trasformazione sociale hanno fatto la loro missione e che si sono strutturate con assetti produttivi e forme di governo partecipato. Recentemente poi, alcune di esse hanno rimesso in moto, soprattutto nel welfare, la produzione di beni di interessi collettivo di tipo relazionale. Impegando, peraltro, un bel pò di millennium in veste di operatori sociali. Non male no? Anche perché non tutto si spiega rispolverando Marx.
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