Cultura
L’omelia di Sant’Ambrogio del cardinal Martini
Guerra e pace. Estratti dal Discorso di S. Ambrogio, di ieri 6 dicembre 2001. "Ha ancora senso parlare di pace? E in che modo, e a quale prezzo? "
di Redazione
I temi indicati nel titolo di questo discorso hanno accompagnato da sempre l’umanità, da quando Caino alzò la mano proditoriamente su Abele e lo uccise (Gen 4,8) e da quando Dio dichiarò: ?Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte? (Gen 4,15), fino alla parola di Gesù: ?Vi lascio la pace, vi do la mia pace? (Gv 14,27).
Ma in questi mesi, a partire dall’11 settembre, tali temi sono ritornati di bruciante attualità.
I fatti sono noti: gravissimi attentati terroristici che rivelano una capacità inaudita di odio e fanatismo, che si serve di tecnologie raffinate e si nutre di forme finora inedite di fondamentalismo civile e religioso (pensiamo a tutti gli aspiranti suicidi). Agli attentati è seguita un’azione di caccia ai terroristi che è sfociata in una guerra in Afganistan. In questi ultimi giorni poi si sono ancora moltiplicati vergognosi attentati suicidi contro cittadini inermi in Israele, a cui hanno fatto seguito ritorsioni e azioni militari in Palestina, in luoghi dove ormai da anni c’è un crescendo di violenza di cui non si vede la fine.
Questi fatti ci addolorano, ci interpellano, ci sconvolgono. Pensiamo con dolore agli innumerevoli morti, ai feriti che porteranno per tutta la vita il segno della tragedia, alle famiglie distrutte, ai milioni di profughi, al pianto dei bambini mutilati. Nascono molte domande, ipotesi, inquietudini. Domande di carattere umano e religioso e di anche carattere politico. Si vorrebbe capire, giudicare, vedere come agire per farla finita con il terrorismo,la paura, la guerra, come operare seriamente per una pace duratura.
Certamente la situazione è ancora troppo complessa e fluida per descriverla in maniera adeguata. Ogni giorno poi aggiunge la sua sorpresa, per lo più dolorosa. Avevo iniziato queste riflessioni partendo anzitutto dall’attentato alle torri gemelle, ma poi gli eventi in Afganistan e in questi ultimi giorni la ricrudescenza degli eccidi in Medio Oriente hanno via via allargato il mio campo di discernimento. Del resto è innegabile che nella preparazione della tragedia dell’11 settembre avesse avuto un ruolo non secondario il risentimento accumulato nell’annoso conflitto israeliano ? palestinese. Per questo mi sono chiesto con insistenza e ho chiesto al Signore: in questo turbine della nostra storia, ha ancora senso parlare di pace? E in che modo, e a quale prezzo?
Parlando, leggendo e ascoltando molto in queste settimane mi sono accorto di come anche i pareri siano tanto divergenti. Sono molteplici i punti di vista, gli angoli di visuale; fortissime sono le passioni, i coinvolgimenti emotivi; resistenti a sgretolarsi le precomprensioni, soprattutto quelle inconsce. Sembrerebbe più saggio attendere, pregare, e per intanto sanare e medicare in quanto si può le ferite, come in emergenza. Ma sant’Ambrogio non si è sottratto alla riflessione e al tentativo di giudizio su fatti assai gravi, pubblici e controversi del suo tempo. (…)
Sono molte le pagine bibliche che sono state evocate in questi mesi per cercare luce nella parola di Dio. Io vorrei partire dal passo evangelico di Luca (13,1-5) che è stato letto durante questa preghiera vespertina. Si tratta di due affermazioni o reazioni di Gesù, posto di fronte a gravi fatti di sangue di origine politica e a dolorose calamità naturali.
Dice il testo”In quello stesso tempo si presentarono a Gesù alcuni a riferirgli circa quei Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola Gesù rispose: Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”.
Noto un particolare curioso. S. Ambrogio, che pure commenta con accuratezza e talora anche con pedanteria l’intero terzo vangelo, su questo punto è reticente. Sorvolando su qualunque sentimento antiromano che poteva risultare dal crimine di Pilato, si limita a un’affermazione marginale, ipotizzando, per il massacro di Gerusalemme, una colpa rituale dei Galilei uccisi, per farne un caso esemplare di punizione ?per coloro che su istigazione diabolica non offrono il sacrificio con animo puro? (Esp. del Vang. Sec. Luca, VII, 159). Evita quindi di lasciarsi coinvolgere dalle ardue domande politiche e teologiche che emergono da tali fatti e lascia senza commento lo sconcertante e inedito comportamento di Gesù. Ma noi non riusciamo a fare altrettanto.
Gesù si trova infatti qui di fronte a un groviglio di problemi etici, teologici e politici. Gli interrogativi che emergono sono analoghi ma superiori per gravità a quello sul quale sarà poi interrogato a proposito del tributo da pagare a Cesare (Lc 20,20-26): interrogazione quest’ultima – ,nota l’evangelista Luca – propostagli ?da informatori che si fingevano persone oneste, per coglierlo in fallo colle sue parole poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore? (Lc 20,20).
Qui si tratta ugualmente di domande a trappola, ma a proposito di fatti ben più sconvolgenti. V’è in questione ciò che noi chiameremmo una ?strage di Stato?, voluta dal rappresentante dell’Imperatore e per di più perpetrata nel luogo sacro del tempio: quindi un massacro avvenuto probabilmente durante le festività pasquali, nel quale dovevano essere state trucidate molte persone, forse terroristi disposti al sacrificio supremo. Non sappiamo quanti fossero, ma è sufficiente ricordare che alcuni anni prima il predecessore di Pilato aveva ucciso in una sola occasione tremila ebrei. Gesù viene dunque provocato ad esprimersi e a dare un giudizio: condannerà l’assassinio politico, voluto per umiliare ulteriormente gli Ebrei e profanare il tempio?, griderà contro la crudeltà e il cinismo del regime dominante? Oppure, come altri in Israele, che ritenevano la dominazione straniera comunque un minor male di fronte a un possibile caos, dirà che si è trattato di una dolorosa operazione di legittima difesa, di una repressione inevitabile per evitare nuove stragi da parte di un terrorismo suicida e senza sbocchi? Non aveva forse un tempo lo stesso profeta Geremia sconsigliato atti di inutile resistenza al conquistatore babilonese? Immagino che Gesù si sarà sentito addosso la domanda che un giorno gli rivolgeranno i Giudei nel tempio: ?Fino a quando terrai l’animo nostro sospeso??. Se tu sei davvero il Cristo, dillo a noi apertamente?. Cioè, in questo caso, facci sapere, tu che sai tutto, da che parte sta la verità e da che parte sta l’ingiustizia. (…) Gesù non prende posizione né pro né contro nessuna delle persone coinvolte, non si esprime su chi degli immediati protagonisti sia da ritenersi colpevole. Proclama, è vero, un suo giudizio, che dovremo approfondire. Ma la sua voce sta al di sopra di tutti i temi sia pur gravi di politica corrente. Ciò ci può sorprendere, deludere e turbare. Vedremo che cosa ciò voglia dire per l’oggi. Ma notiamo fin da ora che si verifica anche qui ciò che notava un recente storico delle origini cristiane: ?In confronto ai profeti classici di Israele, il Gesù storico è notevolmente silenzioso a proposito di molte scottanti questioni sociali e politiche del suo tempo?.Il Gesù storico sovverte non solo alcune ideologie, ma tutte le ideologie? (J.P.Meier, Un ebreo marginale: Ripensare il Gesù storico, Brescia 2001, p.189).
(…) Ma oltre alla domanda di un giudizio umano e morale severo su ogni anche piccola radice di disprezzo e di odio – da qualunque parte provenga e contro chiunque si eserciti, per smascherarla e in quanto possibile per esorcizzarla e disarmarla – emerge con insistenza in queste settimane nel cuore della gente anche una seconda domanda, questa di natura piuttosto politica e militare: il tipo di operazioni che si vanno facendo contro il terrorismo sarà efficace? Servirà davvero a scoraggiare i terroristi, a chiudere gli episodi macabri degli uomini-bomba, a creare le condizioni per un superamento delle cause di tante inquietudini? Ben pochi di noi hanno risposte certe e articolate a tutte queste questioni, anche per la loro complessità e per gli scenari e episodi diversi e mutevoli a cui esse si riferiscono. Ma ciò non toglie che esse gravino pesantemente sulle coscienze di tutti, in particolare di coloro che sono più direttamente responsabili di programmare le operazioni contro il terrorismo, di determinare le misure politiche, economiche, giudiziarie, culturali che si ritengono necessarie. ciò che si è fatto e si sta facendo contro il terrorismo specialmente a livello bellico rimane nei limiti della legittima difesa, o presenta la figura, almeno in alcuni casi, della ritorsione, dell’eccesso di violenza, della vendetta? E’ chiaro che il diritto di legittima difesa non si può negare a nessuno, neppure in nome di un principio evangelico. Ma occorre una continua vigilanza e un costante dominio su di sé e delle proprie passioni individuali e collettive per far sì che nella necessaria azione di prevenzione e di giustizia non si insinui la voluttà della rivalsa e la dismisura della vendetta. Si era avuta l’impressione che questi principi di cautela fossero presenti nei primi giorni della reazione ai terribili attentati dell’11 settembre. Ma ora a che punto siamo? Non ha forse l’ansia di vittoria e il dinamismo della violenza preso la mano diminuendo la soglia di vigilanza sulle azioni di guerra che potrebbero essere non strettamente necessarie rispetto agli obiettivi originari e soprattutto colpire popolazioni inermi? E’ qui che il principio della legittima difesa viene messo gravemente in questione: esso non può essere impunemente scavalcato senza creare più odi e conflitti di quanto non pretenda risolverne. Sembra questo in particolare il caso, è doloroso dirlo, di quanto continua a succedere in maniera crescente in Medio Oriente. Da una parte un terrorismo folle e suicida contro cittadini pacifici e anche tanti bambini, un terrorismo che non conduce da nessuna parte e che suscita un crescendo di ira, indignazione e orrore. Dall’altra atti di rappresaglia, che è difficile definire ancora come operazioni di legittima difesa, che colpiscono popolazioni inermi, e anche qui tanti bambini. Vi si aggiungono in più vere e proprie azioni belliche, di fronte alle quali anche l’osservatore più imparziale e sinceramente desideroso e convinto del bisogno di una piena sicurezza per il paese che così agisce, non riesce più a cogliere quale sia quella strategia della pace e della sicurezza che pure è sempre nel desiderio di tutto quel popolo la cui sopravvivenza è essenziale per il futuro della pace nella regione e nel mondo intero.
(…) A causa di tutto ciò ci impressiona e ci scuote ancora di più l’atteggiamento di Gesù nel brano di Luca da cui siamo partiti e al quale ora vorrei ritornare. C’è infatti un’ulteriore domanda oltre alle quattro che abbiamo sin qui richiamato a proposito dei fatti attuali di terrorismo e di guerra. E’ una domanda molto semplice, di natura evangelica. Suona così: che cosa ci direbbe oggi Gesù su quanto abbiamo evocato fin qui? Che cosa ci suggerirebbe nello spirito del Discorso della Montagna, nel quadro delle beatitudini dei misericordiosi e degli operatori di pace?
Abbiamo visto sopra nelle pagina di Luca 13,1-5 che Gesù non entra in nessuno dei problemi che hanno in mente i suoi interlocutori e che riguardavano l’attribuzione delle colpevolezze per gravi fatti di sangue, la ricerca di capri espiatori. Superando ogni giudizio morale categoriale sulle azioni di singoli o di gruppi, Gesù rimanda alla radice profonda di tutti questi mali, cioè alla peccaminosità di tutti, alla connivenza interiore di ciascuno con la violenza e il male, ripetendo per ben due volte: “se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Egli invita a cercare in ciascuno di noi i segni della nostra complicità con l’ingiustizia. Ci ammonisce a non limitarsi a sradicarla qui o là, ma a cambiare scala di valori, a cambiare vita.
Ciò in un primo momento ci sorprende. Ci sembra una fuga dal presente, un volare troppo alto di fronte a eventi che richiedono con urgenza decisioni e giudizi. Ci sembrano un generalizzare un problema che rischia di confondere torti e ragioni, carnefici e vittime, tutti accomunati sotto un unico denominatore.
Ma Gesù non intende per nulla togliere a ciascuno la sua concreta responsabilità. Ognuno è responsabile delle sue azioni e ne porta le conseguenze. Per questo Gesù disse a Pietro che tentava di difenderlo con la forza quando vennero per arrestarlo: ?Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che metteranno mano alla spada periranno di spada? (Mt 26,52). Gesù sa che ciascuno deve prendere le sue decisioni morali di fronte alle singole situazioni. Ma gli importa molto di più segnalare che tutti gli sforzi umani di distruggere il male con la forza delle armi non avranno mai un effetto duraturo se non si prenderà seriamente coscienza di come le cause profonde del male stanno dentro, nel cuore e nella vita di ogni persona, etnia, gruppo, nazione, istituzione che è connivente con l’ingiustizia. Se non si mette mano a questi più ambiti più profondi mutando la nostra scala di valori tra breve ci ritroveremo di fronte a quei mali che abbiamo cercato con ogni sforzo esteriore di eliminare.
(…)Come ha ripetuto ancora il 4 dicembre 2001 il Papa a proposito del conflitto in Medio Oriente: ?La violenza non risolve mai i conflitti, ma soltanto ne accresce le drammatiche conseguenze?. Ha perciò lanciato ?un nuovo pressante appello alla comunità internazionale , affinché con sempre maggiore determinazione e coraggio aiuti israeliani e palestinesi a spezzare questa inutile spirale di morte. Siano ripresi immediatamente i negoziati, perché si possa giungere finalmente alla tanto desiderata pace?. Inoltre il Papa ha stimolato, con un gesto assolutamente nuovo nella storia del rapporto Cristianesimo ? Islam, tutti i cattolici a unirsi spiritualmente il 14 dicembre prossimo alla conclusione del solenne digiuno musulmano del Ramadam, per affermare che c’è e ci deve essere un clima di rispetto tra le due religioni. Di qui avrà inizio un particolare tempo di conversione, di ritorno al Signore nel cammino faticoso della storia verso pienezza della verità e della carità, che culminerà il 24 gennaio 2002 in una grande preghiera interreligiosa per la pace ad Assisi con la partecipazione del Papa. Sono gesti che intendono affermare a tutto il mondo che mai per nessun motivo le religioni devono divenire fonte di conflitto, ma al contrario occasione e strumento di pace.
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