Welfare

Lo studio come riscatto. la maturità passa da Rebibbia

La storia di due detenuti che hanno affrontato (e superato) gli esami

di Maurizio Regosa

Lui Andrea, 49 anni. Lei Maria, 34. Hanno studiato dietro le sbarre
per sostenere un esame
che apre un orizzonte
sul futuro. Ecco come raccontano le loro ansie.
E le loro speranze
C’è un piccolo “plotone” di studenti su cui nemmeno in occasione della maturità si sono accesi i riflettori. Sono i maturandi dietro le sbarre. Non si sono lasciati andare al “panico” da esame e si sono presentati alle commissioni con la solidità dell’età adulta e la consapevolezza di aver raggiunto un traguardo. Non sono moltissimi (nel Belpaese, le superiori in carcere sono 75). Ma dalla loro hanno il sostegno di un drappello (volonteroso) di professori e una bella determinazione. Prendete Andrea, 49enne napoletano che ha appena ottenuto il diploma presso l’Istituto tecnico commerciale Von Neumann a Rebibbia. Per raggiungere il tanto agognato “pezzo di carta” si è addirittura fatto spostare: «I primi quattro anni li ho fatti a Secondigliano. Poi non essendoci la possibilità di formare la quinta perché ero l’unico, ho chiesto di essere trasferito a Rebibbia. A Roma poi ho una sorella».
Oppure ascoltate Maria, studentessa 34enne che ha concluso (assai bene) il quinto anno dell’Istituto statale d’arte Roma2: «Sono contenta per l’opportunità che ho avuto. La scuola in luoghi come questo offre un modo costruttivo di dare un senso al tempo». Lei ha fatto addirittura due anni in uno, per finire prima.
Qualcuno la chiama seconda occasione. E senza dubbio lo è. Ma un costo ce l’ha. «Quel che conta», spiega Andrea, «è organizzarsi molto precisamente la giornata. Specie nei periodi in cui si lavora e quindi il tempo a disposizione è minore». Non tutto dipende dalla volontà e non sempre le assenze sono deliberate. “Dentro”, il tempo fa le bizze: va a spasso con la burocrazia, e l’incrocio di divieti e di permessi.
E poi ci sono i condizionamenti oggettivi. A Secondigliano, ad esempio, nelle celle non c’è l’interruttore: spente le luci generali, addio lettura. Rebibbia è diverso. Lo chiamano “carcere aperto” non a caso. Nella parte femminile, ad esempio ci sono le socialità, in cui è possibile condividere il tempo. «Ma non andavo a studiare lì», aggiunge Maria, «perché mi sarei distratta troppo. Meglio in cella, il sabato, la domenica, la sera». Sacrifici, insomma. Che di rado sono condivisi. Andrea aveva un compagno di studi. Non è stato ammesso per le troppe assenze («Lavorava fuori. Troppi impegni. Del resto un detenuto a cosa aspira? Alla libertà»). Maria invece era sola fin dall’inizio: «I primi anni eravamo un gruppo numeroso, poi, man mano che si andava avanti, molte smettevano: uscivano o venivano trasferite. Un peccato perché ci davamo una mano, c’era solidarietà, si lavorava insieme».
Diverso (né fa meraviglia) il clima fra gli uomini. «Che tu sia uno studente non interessa a nessuno. C’è indifferenza da parte di chi non è iscritto. Ti vedono pure in modo strano», commenta Andrea. È la solitudine del maratoneta. Che si avvicina al traguardo, passo dopo passo, incurante del disinteresse e persino degli ostacoli. Che possono venire da vari fronti, anche dalla mancanza di materiale didattico. Tagliato il nastro, però, la soddisfazione è grande e Andrea la scandisce tutta intera: «L’avevo deciso entrando in carcere e oggi, anche grazie alla commissione, disponibilissima, ho ottenuto il diploma. Adesso vado avanti. Mi piace studiare. Mi gratifica molto più del lavoro».
Anche per Maria non finisce qui. Pure lei, che per la maturità ha preparato una tesina su guerra e diritti umani, guarda all’università: «Mi piacciono le scienze sociali. Ho già preso appuntamento con il Garante dei detenuti per capire quali possibilità ci sono e poi per dirgli che la scuola, in luoghi come questo, è uno modo veramenente efficace per dare concretezza alla Costituzione che parla di reinserimento sociale».

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