Volontariato

Lo storytelling non è morto, ma servono strategie narrative

di Giulio Sensi

“Come uscire dall'angolo?” si chiede Vita in uno degli interessanti contributi del numero di giugno 2019. “Viva le Ong” è il titolo e l'inchiesta prodotta rappresenta la più completa e documentata reazione alle tempeste d'odio degli ultimi due anni. Reazione non solo al fenomeno battezzato in modo sprezzante dei “taxi del mare”, ma a tutto il discredito gettato addosso a chi si occupa degli altri, mission fondamentale del terzo settore. Marco Dotti in questo contributo, realizzato grazie anche al dialogo con l'economista Luigino Bruni, ha centrato il cuore della questione: come fare in modo che la reazione, che deve esserci e in piccola parte già c'è, non sia funzionale all'attacco.

Non solo perchè numerosi e autorevoli studi hanno dimostrato che combattere odio e fake news rispondendo colpo su colpo è inutile se non controproducente, ma anche e soprattutto perché la potenza di fuoco dell'attacco sarà sempre più forte e la reazione rischia “di aggiungere rumore di fondo ad altro rumore di fondo”.

Il problema però non riguarda tanto il mezzo (lo storytelling) quanto la strategia complessiva dei soggetti del terzo settore, e non solo, e le loro reti. L'inefficacia della risposta -e quindi la perdita di terreno- è legata all'errore, così spesso praticato nel terzo settore, di affidare ad un'unica forma narrativa l'intera risposta. Che è sempre di più lo storytelling. Ma facciamo attenzione: l'esplosione delle storie dal sociale è un fenomeno abbastanza recente. Per lunghi anni il terzo settore ha sottovalutato la potenzialità delle storie, appiattendosi su strategie solamente informative e poco narrative, e in buona parte continua a farlo.

In questa fase si rischia di generare quello che Bruni chiama “storytelling emozionale” che di per sé non è il male, ma risulta sterile se non accompagnato da qualcos'altro. È proprio su questo “qualcos'altro” che dovrebbe essere rilanciato il dibattito. Partendo intanto da uno sforzo di raccolta e proposizione di storie che privilegi meno l'aspetto intimo della persona (fondamentale) e più la capacità di trasformare i contesti. Meno emozioni delle storie, più impatto. O meglio: che utilizzi la sfera emozionale come gancio per condividere valori e significati.

Poi cambiando prospettiva: la messa in condivisione di quello che Bruni chiama “capitale narrativo” (che non è altro che tutta la grande ricchezza inclusiva che è capace di attivare, generare e rigenerare il terzo settore) deve contenere la valorizzazione narrativa con capacità di organizzare le informazioni e porle sul piano trasformativo della realtà. Questo significa creare alleanze e strategie condivise, significa assumere la comunicazione non come funzione o singola azione (magari da appaltare ai cosiddetti “professionisti”) bensì come strategia trasformativa, partendo dalla consapevolizzazione che la comunicazione è anche e soprattutto un'altissima forma di partecipazione alla vita sociale.

Non ha fallito quindi lo storytelling, ma è fallimentare affidare allo storytelling (che in questo modo si riduce a mero marketing promozionale) la risposta alla perdita di valore (con tutte le conseguenze in termini di fiducia, reputazione, impatto economico etc.) del terzo settore nella sfera pubblica. Non si tratta appunto di aggiungere rumore a rumore, ma di lavorare su un piano più solido che in passato il terzo settore riusciva a costruire con maggiore facilità (erano anche altri tempi…): quello culturale. È dalla costruzione di una nuova e solida cultura sociale (con le tante implicazioni che questa affermazione comporta) che può passare la crescita della comunicazione sociale e la difesa del terzo settore.

E la presa di coscienza deve essere non solo di chi comunica, ma della governance del terzo settore che dovrebbe capire (e in pochi lo hanno già fatto) che comunicare significa costruire ponti, non lanciare fuochi d'artificio. È più faticoso, ma “fuori c'è solo il vuoto”.

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