Welfare

Lo stigma dell’integrazione

Come si misura il grado di inserimento sociale

di Redazione

Tutti ormai pensano che questo sia un processo
(talvolta quasi impossibile) che riguarda solo gli stranieri
e in particolare i fedeli di Allah. Non è cosìdi Ouejdane Mejri
Sono stata in un certo modo sollevata quando ho scoperto che il termine “integrazione” non era proprio degli immigrati. Le scienze sociali infatti lo usano in modo più generale definendo l’integrazione come il contrario dell’incoerenza, dell’esclusione e della frammentazione di gruppi o persone che convivono in una particolare società. Non siamo quindi gli unici destinatari di processi di integrazione o delle valutazioni del nostro livello di assimilazione, bensì condividiamo tali aspetti con tutti i cittadini del Paese nel quale viviamo. Si parla di una società integrata quando essa offre una coesione attorno ai suoi valori e alle norme che garantisco l’ordine e i legami sociali.

Formule europee
Sono state fornite dal Consiglio dell’Europa, già nel 1991, varie formule matematiche per valutare l’integrazione degli immigrati e dei loro figli. Considerazioni qualitative che calcolano il contributo economico di chi si insedia in Europa, il grado di apprendimento della lingua oppure la forza di attaccamento alle tradizioni di origine. Si è contato il numero di interazioni di un immigrato con il mondo che lo circonda, numero di amici, contatti con le istituzioni come la scuola oppure la presenza di coppie miste. Tali valori corredati da altri numeri sulla propensione alla criminalità oppure alle violenze domestiche hanno generato stereotipi poco affidabili da un punto di vista strettamente scientifico ma con un impatto molto forte sulla società italiana che ha visto negli immigrati e nelle seconde generazioni potenziali “ladri di lavoro” quando sono occupati o fannulloni quando non lo sono. Se per di più si aggiunge il parametro ormai terrorizzante dell’essere musulmano, il mix micidiale offre a chi guarda la realtà in modo frivolo e superficiale tutti gli strumenti per asserire che l’integrazione di un musulmano nato in Europa sia un miraggio per non dire che sia dell’ordine dell’impossibile.

Il mio primo Ramadan
Quando ho scelto di vivere in Italia avevo intuito che qui avrei incontrato risposta ai miei bisogni. Ho scommesso quindi sul Belpaese lasciando l’opzione Francia, apparentemente più semplice per questioni linguistiche. Ecco cosa fa un immigrato. Crede in un futuro diverso, che spera migliore. Ho lasciato la sicurezza di un’appartenenza sociale facile perché tutta mia e mi sono approcciata a una nuova cultura affascinante ma dissimile.
Il primo ramadan a Milano mi aveva subito rimandata ai sacrifici che questa scelta di vivere da musulmana in un Paese cristiano comportava. Ma la sfida è diventata ancora più grande quando la decisione di fondare la mia famiglia in terra italiana si è concretizzata. Parlare ogni giorno, a ogni momento una lingua che non è la tua fa sì che sei integrato anche se non la parli bene. Non perché riesci a comunicare con gli autoctoni ma perché diventi un altro, pensi diversamente e usi altre parole per tradurre i tuoi pensieri.
L’integrazione è un processo naturale, che si innesca spontaneamente già dal momento in cui uno varca la frontiera di un nuovo Paese. Chi resiste e si sforza a non perdere una briciola dalla propria identità culturale o religiosa lo fa per paura di perdere tutto il suo essere, di perdere quelle certezze che fanno di lui ciò che è. Un bambino di seconda generazione invece non ha nulla da perdere, ha solo da raccogliere e da guadagnare. Il suo processo di integrazione nella società sarà parallelo a quello dei suoi coetanei autoctoni, più difficoltosa in certi aspetti e facilitato in altri.

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