Welfare

Lo stato che casinò! Il boom senza fine dell’azzardo da bar

In media ogni giocatore mette sul tappeto verde di Superenalotto & co circa 2.600 euro all’anno. Un trend che non conosce crisi.

di Maurizio Regosa

Un popolo di giocatori pronti a palpitare per una scommessa ormai a portata di ogni click. Uno Stato che, per rimpinguare le casse, si è fatto promotore di un?offerta senza limiti di spazio e di tempo. Una tv, anche pubblica, che fiancheggia la corsa all?alea. Così il nostro Paese è diventato un bengodi per giocatori che vogliono sentirsi vivi o sfuggire alla sfortuna quotidiana. Un fenomeno di cui si parla molto poco e che ha costi sociali impressionanti.

Il grande azzardo
Ormai circa l?80% della popolazione partecipa, in un modo o nell?altro, al grande azzardo. Si stima siano 15 milioni le famiglie che hanno fiducia nel ?gratta e vinci? o sperano nelle slot machine o nel Superenalotto. In media, quelli che giocano impiegano circa 2.600 euro l?anno. Soldi che spessissimo faticano a mettere insieme, a dar retta agli esperti che tracciano del giocatore un preciso identikit: ha spesso un titolo di studio basso, un reddito sotto la media, in molti casi è disoccupato? Spera nel colpo di fortuna e se quando vince diventa più audace, quando va male si indebita per rincorrere le perdite. E l?adrenalina gli impedisce di capire che sta diventando un ?gambler?, uno schiavo del gioco, ormai nel tunnel di una «dipendenza compulsivo-comportamentale». È la drammatica esperienza di circa il 3% della popolazione adulta: sono circa 800mila i giocatori che non sanno più fermarsi.

I giochi sono fatti
Se sempre più italiani si scottano tentando la fortuna (il 10% delle famiglie che si rivolge alle fondazioni antiusura è coinvolto in problemi di gioco), si impiega sempre più denaro. In dieci anni, si è passati da una spesa di circa 9 miliardi e mezzo ai 42,2 miliardi di euro del 2007 (la previsione per l?anno in corso si attesta sui 50 miliardi). Un?escalation tutt?altro che casuale. È il frutto di un vertiginoso aumento dell?offerta: le tre occasioni settimanali di gioco autorizzato (i ?classici? totocalcio, lotto e ippica) si sono moltiplicate in modo esponenziale grazie alle lotterie istantanee, alle sale bingo, alle slot machine, alle sale scommesse, a internet.

Il banco vince sempre
Ed è ?merito? dello Stato se la domanda è lievitata in questo modo: ineffabili governi in affanno fiscale si sono ricordati della vecchia massima («Il banco vince sempre») e hanno deciso che lo Stato avrebbe potuto diventare se non proprio biscazziere, quasi. Anno dopo anno, e in modo bipartisan, diverse maggioranze hanno scelto di introdurre nuove occasioni di gioco, fiduciose che a ogni decisione sarebbe seguito l?aumento della spesa complessiva. Cosa che si è puntualmente verificata: il primo grande balzo si è verificato dopo l?introduzione del Bingo (nel 1999); nel 2003 sono comparse le slot machine; i corner sono stati inventati nel 2006 (e nel 2007 si è appunto raggiunta la spesa record di 42,2 miliardi di euro). Ulteriori possibilità sono state introdotte dalla seconda lenzuolata di Bersani (agosto 2007). Un nuovo rialzo della spesa è previsto dalla Finanziaria appena approvata.

E il Fisco sta a guardare
Almeno, direte voi, le entrate fiscali saranno andate alle stelle. Macché. È stato così solo per i primi anni, quando i Monopoli si occupavano direttamente di questo business. In seguito, si è pensato opportuno privatizzare la gestione, il che ha voluto dire rinunciare a una parte delle entrate: nel 2004 su quasi 25 miliardi di euro, 7,3 finivano all?Erario; appena due anni dopo, su 35,4 miliardi il Fisco ha incassato solo 6,7 miliardi saliti, nel 2007, a quasi 7,2 miliardi (ma 431 milioni provengono dalle nuove concessioni). Ah le privatizzazioni, così belle quando funzionano? Ma perché questo avvenga occorre non ?dimenticare?, come è pure successo, di collegare le centinaia di migliaia di videopoker al cervellone della Sogei che, per il Fisco, avrebbe dovuto monitorare e incassare. C?è un?indagine in corso: la magistratura contesta a dieci gestori (e ai Monopoli) 88 miliardi di danno erariale.

Effetti collaterali?
Ma se il banco vince sempre, chi perde? E soprattutto chi si occupa di quelle persone che scivolano nella dipendenza e di quanti accanto a loro non possono che constatarne il crollo? Certo non lo Stato (che pure qualche responsabilità secondo molti dovrebbe riconoscersela): in Italia questa patologia non esiste. Come spiega il professor Riccardo Zerbetto: «Nel nostro Paese il gioco d?azzardo non è ancora stato riconosciuto come problema sociale nonostante fin dal 1980 l?Oms lo ha abbia chiaramente identificato come tale». Il risultato è che il gambling non è inserito nei Livelli essenziali di assistenza e che le Asl per quei pochi progetti sperimentali condotti, ad esempio, dalla Regione Toscana con il progetto Orthos (Residenza Orthos) o dal Piemonte (Lucignolo) non possono contare su specifici capitoli di spesa (e dunque sulla necessaria continuità).

Nuova frontiera per il non profit
Non resta che il privato sociale: chiamato a occuparsi di questa nuova frontiera del disagio, non si sta tirando indietro. Non è un caso se nella penisola stanno proliferando gruppi di auto aiuto (<a href="http://www.giocatorianonimi.org" target="_blank">Associazione Giocatori Anonimi</a>) in collegamento fra loro e che si riconoscono nel Conagga – Coordinamento nazionale dei gruppi di auto aiuto; associazioni di gambler (come Agita, associazione dei giocatori d?azzardo e delle loro famiglie, che ha creato il sito Agita); realtà che raggruppano esperti e medici che conducono terapie di gruppo (come la Siipac – Società italiana d?intervento sulle patologie compulsive di Cesare Guerreschi, Società Italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive ed il Gioco d&apos;Azzardo Patologico). Alcune di queste associazioni stanno dando vita a comunità d?accoglienza come il progetto Orthos: 21 giorni residenziali e intensivi, seguiti da un anno di accompagnamento. Interventi lunghi e delicati, per i quali sono necessari denari e risorse qualificate? Sarebbe stato meglio dar retta a chi molti anni fa scriveva: «Quando l?accumulazione di capitale di un Paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose vadano male». Non era un moralista. Si chiamava John Maynard Keynes.


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