Cultura
Lo Stato (a)sociale
Il dibattito sulla riforma del sistema previdenziale ha portato Marco Vitale a fare alcune considerazioni sulla situazione dello Stato sociale.
di Marco Vitale
Poco tempo dopo la liberazione dell?Estonia, visitai la sua capitale Tallin. Passeggiai tra le ?macerie? di una città, una volta fiorente, ridotta in condizioni miserabili dal comunismo (cioè da un sistema che si era sviluppato nel mondo per concretizzare il principio di solidarietà nella sua forma più completa). Ero accompagnato da una professoressa d?inglese, quarantenne, che mi faceva da guida e interprete. Tra le tante cose che mi generavano tristezza e sgomento, vi era l?elevato numero di anziane signore che celavano pudicamente la richiesta di elemosina, offrendo in vendita qualche cosa. Una vendeva dei vecchi ricami; un?altra vendeva vecchie cartoline; un?altra vecchi cappelli; un?altra suonava tristemente il violino. “Sono tutte pensionate”, mi disse la mia guida, “ma le pensioni sono insufficienti. Per fortuna molte hanno dei piccoli orti. Ma tutte queste pensioni, pur insufficienti, pesano molto sul sistema. L?unica nostra speranza è che muoiano in fretta”.
La professoressa d?inglese aveva un?idea precisa e pratica su come affrontare, nella fattispecie, la crisi dello Stato sociale. Era una ricetta un po? cruda, ma tecnicamente efficace. Così come efficace è il metodo di quella tribù africana, che ricordava il, mai sufficientemente compianto, professor Federico Caffè: era e, forse, è ancora costume di quella tribù africana condurre i vecchi ai margini di un fiume profondo per sospingerli poi, con delle pertiche, verso il punto di non ritorno. Rilevata la contraddizione profonda di una società che produce vecchi a ritmo insopportabile e, al tempo stesso, smantella le strutture assistenziali necessarie, Caffè, nel 1986, scriveva di non capire bene a cosa miri “il terrorismo contabile dei disavanzi catastrofici degli istituti previdenziali… Se si intende che è giunto il momento per qualche forma di ?soluzione finale?, per porre rimedio agli squilibri originati da una eccessiva longevità, si cominci a preparare le basi etiche, riconoscendo che, con una frequenza preoccupante, la vita non sempre è un dono; né tra i tanti diritti che si intendono tutelare esiste quello del singolo alla morte dignitosa, al momento giusto”. Certo, ricorda Rea in L?ultima lezione, Caffè riconosceva che “i nodi del Welfare sono spaventosi, ma essi non si superano facendo del terrorismo contabile e mostrando le voragini che esistono nei libri mastri degli istituti previdenziali. Si superano sul piano di una riflessione che investe il tipo di società che possiamo e dobbiamo darci. Ma non in senso astratto, ideale, bensì concreto, per l?oggi”.
Ormai numerosi sono i contributi importanti, e tra questi l?importante libro di Palladino (Le pensioni domani: si salvi chi può, Rubettino, 2oo3) che potrebbe essere di utilità per avviare una riflessione politica e civile costruttiva e non rissosa, alla ricerca di soluzioni eque, pratiche, comprensibili e accettabili.
Io temo, invece, che noi, come al solito, ci indirizzeremo sulla via della demagogia, della rissa, del mercato delle vacche, della leggerezza, dell?incultura. E che, quindi, finiremo per approdare a metodi e soluzioni più simili a quelli della professoressa di Tallin o della tribù africana, che a quelli un po? più civili verso i quali tentano di indirizzarci questi contributi di studio e di pensiero.
Vorrei sviluppare qualche cenno storico, solo per sottolineare che siamo di fronte a un problema un po? più serio e antico di quello della pensione di anzianità della fortunata signora Bertinotti che, giovane, gode da tempo di una splendida pensione di anzianità. Welfare State viene tradotto indifferentemente con Stato sociale, Stato del benessere, Stato assistenziale e, in effetti, a seconda della sua composizione e della sua applicazione, può assumere l?uno o l?altro di questi volti.
Le forme contemporanee di Welfare State vengono, comunemente, ricollegate al rapporto dell?inglese liberale Lord William Beveridge, sottoposto al governo inglese nel 1942. Secondo questo documento lo Stato sociale è un edificio basato su quattro colonne portanti : istruzione, sanità, lavoro e protezione sociale. Tutte e quattro queste colonne devono stare salde e solide perché il sistema possa funzionare. Ma secondo Lord Beveridge: “Il benessere collettivo dev?essere raggiunto mediante una stretta cooperazione fra lo Stato e l?individuo… “. Lord Beveridge mette in guardia contro l?assistenzialismo prolungato: “Gli assicurati non devono avere l?impressione che il reddito provveduto per un periodo di non lavoro, qualunque ne sia la causa, provenga da una borsa senza fondo”. Lord Beveridge sottolinea l?importanza del risparmio privato integrativo, autonomamente gestito : “La gestione del proprio risparmio è un elemento essenziale della libertà dell?individuo”. Lord Beveridge mette anche in guardia contro le eccessive generosità verso la vecchiaia : “è pericoloso largheggiare troppo nei sussidi per la vecchiaia prima che siano state adottate misure per tutti gli altri bisogni essenziali come la prevenzione delle malattie e la tutela dei giovani”.
Lord Beveridge, che scrive quando la vita media era ben più breve di oggi, indica come età minima pensionabile i 65 anni per gli uomini e i 6o per le donne (una differenza che, alla luce della odierna vita media molto più lunga delle donne, non fa più alcun senso, come afferma Giorgio Fuà in un suo importante volume su Conseguenze economiche dell?evoluzione demografica). L?indicazione è quella di una soglia minima, afferma il rapporto Beveridge, infatti “non c?è età fissa per l?andata a riposo, ma solo un minimo d?età per andare in pensione”.
Ma lo Stato sociale non nasce con il rapporto Beveridge. Esso è anche una delle risposte più significative e più durature della rivoluzione roosveltiana alla Grande depressione degli anni 3o negli Stati Uniti. Ed è una risposta che giunge in Usa cinquant?anni dopo che lo Stato sociale moderno fa la sua prima apparizione organica nella Germania di Bismarck. Sotto la spinta del timore delle idee rivoluzionarie diffuse fra la classe lavoratrice più attiva dal suo compatriota Karl Marx, morto da poco, Bismarck, dopo una lotta politica notevole, riuscì a far approvare dal Reichstag, nel 1884 e 1887, leggi che prevedevano forme di assicurazione generale per infortuni, malattia, invalidità, vecchiaia. Sul fronte pensionistico il cancelliere Otto von Bismarck introdusse un sistema non contributivo basato sul “pay as you go system”. Ma l?età del pensionamento era 7o anni mentre l?attesa media di vita era di 48 anni. Sulla spinta dell?esempio di Bismarck, il cancelliere dello Scacchiere inglese, Lloyd George riuscì a far approvare, dopo scontri politici durissimi, leggi che prevedevano assicurazioni contro la malattia e l?invalidità, che facevano seguito a un sistema non contributivo di pensione di vecchiaia e, fatto del tutto nuovo, un sussidio di disoccupazione (che la Germania avrà nel 1927).
Sulla spinta di queste realizzazioni pratiche, anche la classica e rigorosa teoria economica inglese subì una feconda evoluzione. Il punto di svolta fu rappresentato da Arthur Pigou (1887 – 1959) che, succeduto nella prestigiosa cattedra di Alfred Marshall all?Università di Cambridge, pubblicò, nel 192o la sua opera fondamentale, dal titolo The Economics of Welfare. Mentre l?ortodossia classica non offriva argomenti a sostegno di una ridistribuzione dei redditi (nel che, in un modo o nell?altro, si sostanzia, il Welfare State) e quindi la rifiutava rigorosamente, Pigou sostenne che purché la produzione totale non fosse ridotta dagli interventi di ridistribuzione, il benessere economico generale, cioè la somma totale di soddisfazione ricevuta dal sistema, era senza dubbio migliorato dal trasferimento di risorse spendibili dai ricchi ai poveri. L?utilità marginale del denaro diminuiva al crescere della sua quantità. Perciò i poveri traevano più piacere dei ricchi da un aumento delle loro entrate e dei beni così posseduti. La breccia aperta da Pigou fu poi sviluppata dai giovani economisti americani che prepararono il terreno teorico e pratico che portò, negli anni 3o, al Social Security Act americano. è impressionante leggere le dichiarazioni degli oppositori di allora (pressoché tutta la comunità industriale, finanziaria, professionale del tempo) che prospettavano da questi sviluppi esiti catastrofici per l?economia e la società americana.
Questi i principali passaggi, riassunti per sommi casi, degli sviluppi del Welfare State moderno. Esso rappresenta un?evoluzione fondamentale, dalle profonde radici storiche del capitalismo contemporaneo. Una costruzione, nelle sue linee portanti, irreversibile. è dunque comprensibile che Galbraith scriva: “Lo Stato sociale, a dispetto dell?oratoria dell?opposizione, è diventato una parte ben salda del capitalismo moderno e della moderna vita economica”. E Samuelson gli fa eco: “Anche senza il dono della profezia si può scommettere che lo Stato sociale ci accompagnerà per lungo tempo”. Queste convinzioni diventano ancora più profonde se allarghiamo lo spettro storico. Se lo Stato sociale, in senso proprio, è una costruzione moderna, la società solidale e i connessi istituti hanno radici ben più antiche; essi affondano le loro radici nelle grandi religioni e nelle società dalle stesse forgiate, come ha ricordato Gianfranco Ravasi in un bellissimo articolo del 1997 dal titolo Tutti i volti della solidarietà. Chi ha avuto modo di studiare le grandi istituzioni assistenziali dei nostri maggiori Comuni, come i grandi ospedali che erano, al tempo stesso, enti sanitari, assistenziali, previdenziali, non può non cogliere la profondità della solidarietà cittadina che, pur nella durezza dei tempi, legava i cittadini, attraverso le opere di assistenza sociale e di misericordia. Non era lo Stato, ma era la società, era la classe dirigente, e anche i semplici lavoratori (la prima Compagnia della Misericordia sorse a Firenze nel 1224 ad opera di Piero Borsi, capo dei facchini dell?arte della lana), che talora sentiva il valore pratico di un dividendo sociale, frutto di una società arricchita da istituzioni di solidarietà.
Ha mille riscontri storici l?affermazione di Adolf Berle che in La Repubblica Economica Americana scrive: “Se il sistema economico dipendesse solamente dal movente del profitto, tale sistema tenderebbe a stagnare… Il sistema politico-economico americano continuò a fondarsi sull?impresa privata, eccettuate alcune parti, e continuò a basare le sue operazioni sui profitti delle imprese come remunerazione degli individui. Ma di questo flusso totale di reddito esso separò tre grandi elementi e li destinò a scopi impersonali. Uno di questi elementi, e il maggiore, fu il sistema fiscale; il secondo fu costituito dall?insieme dei contributi volontari e involontari ai fondi di sicurezza sociale, ai fondi per pensione e ad altri istituti simili. Il terzo elemento fu e continua a essere costituito dalle donazioni volontarie e per servizi sociali: esso continua a crescere sia in valore assoluto sia in proporzione al reddito nazionale. Tutti e tre gli elementi accelerarono la formazione del capitale e tutti e tre mantennero un processo distributivo parzialmente, se non del tutto, indipendente dai motivi del profitto e dello scambio e non influenzato dalle loro fluttuazioni”.
La spinta verso la legislazione sociale non era sostenuta dalla fiducia che in seguito ad essa si sarebbe accresciuto il reddito nazionale, ma che si sarebbero aiutati esseri umani. L?idea che una politica umanitaria potesse anche essere una buona politica economica si formò a mano a mano che i risultati cominciarono ad apparire.
Bene dice Gianfranco Ravasi: “Il senso della solidarietà è, quindi, come un filo d?oro che percorre la storia dell?Occidente e che deve sempre dipanarsi anche se con percorsi nuovi perché nuove sono le interrogazioni e gli appelli”. Dunque anche lo Stato sociale deve cercare percorsi nuovi, deve cambiare. E l?entità del cambiamento deve essere strettamente proporzionale alle sue degenerazioni, alle sue obsolescenze, alle sue disfunzionalità. Le une e le altre determinate e misurate in modo serio, laico, scientifico. Sembra che solo i dinosauri siano rimasti fermi e che, per questo, siano spariti. Perché, allora, ritengo che il nostro dibattito sulla riforma dello Stato sociale, abbia alte possibilità di finire male? Potrei rispondere con una battuta: perché parecchi di quelli chiamati a condurre la danza assomigliano molto ai dinosauri.
Il primo equivoco di fondo da sciogliere è che si cerca di gabellare come riforma dello Stato sociale operazioni che sono di pura e semplice decenza pubblica. Uno dei meriti del dibattito in corso è che esso ha fatto emergere l?entità dei privilegi mostruosi che si sono andati accumulando in questo cosiddetto Stato sociale. È corretto parlare di Stato sociale per un sistema di questo tipo ? A me sembra che, in buona misura, dovremmo parlare di Stato antisociale o asociale. E che l?obiettivo di fondo non debba essere tanto quello di riformare lo Stato sociale, ma di introdurre lo Stato sociale. Non si tratta di una questione terminologica. Ma di sostanza. Come si possono chiedere sacrifici a milioni di persone partendo da un livello di così irridente iniquità e di così scandalosi privilegi ? E ciò proprio quando di queste iniquità e privilegi godono, in gran parte, coloro che chiedono questi sacrifici, dai parlamentari alla Banca d?Italia? Ed è realistico pensare che coloro che beneficiano di tali privilegi (parlamentari) o che li hanno determinati (sindacati) siano anche coloro che dovrebbero correggerli? Eliminare almeno le più scandalose iniquità e privilegi non fa parte di un discorso di riforma dello Stato sociale, ma è un?operazione preliminare, distinta, una precondizione culturale, morale e politica.
Se prescindiamo dalle pensioni scandalose (l?eliminazione delle quali non fa parte delle riforme dello Stato sociale, ma, come sopra detto, della semplice decenza), e ci concentriamo sulle pensioni, per così dire, normali, la necessità di por mano seriamente alle stesse deriva dal mutare dei grandi trend demografici e, quindi, dei presupposti sui quali le pensioni sono state calcolate. La questione dovrebbe essere, in gran parte, una questione di aritmetica. L?unica questione di scelta politica consiste nel porsi e nel rispondere alla seguente domanda: vogliamo delle casse previdenziali che prima o poi falliscano oppure no? Vogliamo lasciare ai nostri figli o nipoti l?incombenza di far fronte a questo fallimento o vogliamo lasciare loro la casa decentemente in ordine? Questa è l?unica questione politica. Una volta risposto in un modo o nell?altro a questa domanda, la questione dovrebbe diventare di competenza degli esperti. Tocca a loro, in una materia così complessa e delicata, elaborare proposte, tecnicamente fondate, di graduale aggiustamento per riportare economia e demografia in armonia. Tocca poi al Parlamento vagliare queste soluzioni e prendere, tra le varie alternative possibili, quella politicamente più equa, efficiente, accettabile con il minor disagio sociale.
Vedo, con una certa preoccupazione, che la questione rischia, invece, di diventare una specie di trattativa sindacale. Qui gioca un ruolo, certamente non positivo, un fatto che pochi italiani conoscono. Circa il 5o% degli iscritti ai maggiori sindacati nazionali sono pensionati. I pensionati devono certamente avere una adeguata rappresentanza, ma sarebbe bene che i sindacati dei lavoratori attivi fossero distinti dai sindacati dei pensionati, in modo che sia più chiaro all?opinione pubblica chi parla per chi. Si tratta di un?esigenza di trasparenza e di ?accountability? .
Tra i fattori che esigono un cambiamento dell?attuale sistema, accanto alle grandi tendenze demografiche (allargamento delle attese di vita; diminuzione del tasso di natalità), vi sono altri due fattori importanti.
Il primo è la grande crescita del reddito medio, che permette a una percentuale non piccola della popolazione di programmare il proprio futuro tenendo conto di varie alternative e non puntando tutto ed esclusivamente sulla pensione statale. Questa aveva un ruolo e un peso determinante quando il livello del prodotto interno lordo e dei redditi individuali erano molto più modesti. Oggi non è più così per ampie fasce di popolazione.
Il secondo è la destrutturazione delle grandi centrali organizzate di lavoro che si è verificata in quasi tutti i settori, ad esclusione dell?amministrazione pubblica e di pochi grandi enti. Oggi i processi di molecolarità del mondo delle imprese e del lavoro hanno raggiunto un livello estremamente spinto, soprattutto in Italia.
Il panorama quantitativo che ne risulta è impressionante: in Italia operano 4 milioni e mezzo d?imprese (una ogni 8 abitanti), prevalentemente a conduzione familiare e di dimensioni assai ridotte; 4 milioni di professionisti; 2 milioni di collaborazioni coordinate e continuative; 7oomila lavoratori interinali; 5 milioni di posizioni individuali speciali nel lavoro dipendente.
E’ una grande fetta del mondo dell?impresa e del lavoro che ha deciso o è stato costretto a ?mettersi in proprio?. A questo mondo i vecchi schemi previdenziali rigidi vanno sempre più stretti. I tentativi di spingerla e vincolarla nei vecchi schemi previdenziali hanno l?effetto principale di allargare la sfera dell?evasione contributiva riducendo così la base imponibile della previdenza ufficiale.
La riforma forte dei nostri schemi previdenziali è, dunque, ineludibile. Ma ciò vale anche per tutti i principali Paesi europei.
Ma non c?è nessuna ristrutturazione o riforma dello Stato sociale che possa tenere, consolidarsi e legittimarsi se non attraverso la crescita e lo sviluppo. Se non creeremo più lavoro vero, i giovani non ce la faranno, comunque, a pagare le pensioni che pretendiamo di caricare sulle loro spalle. E se non investiremo non ci sarà né risanamento duraturo, né sviluppo. E se non ci sarà qualità non ci sarà né risanamento, né sviluppo. E se non ci sarà una scuola drammaticamente diversa non ci sarà più sviluppo duraturo. E se non ci saranno più giovani e più nascite, non ce la faremo. E tutto questo e altro ancora non può essere se non migliorerà enormemente il funzionamento delle nostre istituzioni democratiche e il livello culturale e morale della nostra classe dirigente. Non può esistere uno Stato sociale decente in una democrazia indecente.
Il testo di Marco Vitale è la relazione tenuta in occasione della presentazione del libro di Giovanni Palladino Le pensioni domani, si salvi chi può, 21 ottobre 2oo3.
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