Il caso

Lo sport è di tutti, lo dice anche il tribunale

Secondo il tribunale civile di Biella e la Corte d'appello di Torino, la Federazione ciclistica italiana, che non ha permesso di tesserarsi con gli altri atleti junior a un giovane con disabilità intellettivo relazionale ha commesso un atto discriminatorio. Un cambiamento di cultura, che tuttavia, secondo Alessandro Munarini, responsabile delle attività paralimpiche del Csi, è ancora lontano dall'essere completato

di Veronica Rossi

Dei ciclisti durante una competizione su strada

Lo sport è un diritto di tutti. La Corte d’Appello di Torino ha confermato una sentenza del tribunale di Biella, che aveva giudicato discriminatorio il comportamento della Federazione ciclistica italiana (Fci) nei confronti di Andrea, un ragazzo con disabilità intellettivo relazionale, a cui non era stato concesso di praticare attività agonistica con i coetanei, nonostante la presenza di certificati di idoneità.

Il giovane, che nel 2019, all’epoca dei fatti, era minorenne, dopo aver partecipato a varie manifestazioni sportive nell’ambito della categoria “Intellectual disability”, che prevede la presenza di un accompagnatore e una partenza differenziata, si era reso conto di non aver bisogno di sostegni particolari e di poter gareggiare con gli altri coetanei. La società sportiva, in accordo con la famiglia, si era quindi informata su cosa fosse necessario per esaudire il desiderio di Andrea; dopo aver espletato tutte le formalità e aver ricevuto un certificato di idoneità sportivo agonistica dall’Istituto di medicina dello sport di Torino – Federazione medico sportiva italiana, era stata fatta la richiesta di passare alla categoria “Junior sport” della Federazione. Quest’ultima, tuttavia, dopo aver accettato il tesseramento, l’aveva annullato. «Nonostante tutto quello che si dice, in Italia esiste ancora una forte discriminazione, non solo legata al tema della disabilità», dice Alessandro Munarini, responsabile delle attività paralimpiche del Centro sportivo italiano – Csi. «Ci sono ancora molti pregiudizi e comportamenti di questo tipo nello sport, nei confronti di chi viene considerato “diverso”, perché disabile o perché straniero, per esempio».

Dopo alcuni tentativi di conciliazione non andati a buon fine, la vicenda era finita al tribunale civile di Biella, che aveva ordinato la cessazione del comportamento discriminatorio da parte della Federazione. Quest’ultima, tuttavia, era ricorsa in appello. «La Fci non ha fatto quello che dovrebbe essere il suo lavoro, che semplicemente valutare un atleta dal punto di vista tecnico», continua Munarini. «è questo il ruolo di una Federazione, preparare i bambini e i ragazzi a un futuro da professionisti. Poi ci sono le attività sportive, che si occupano di coloro che non hanno prestazioni così alte, per evitare che facciano vita sedentaria o abbandonino lo sport. Se in questo caso avessero detto “Non ti convochiamo perché non sei a livello degli altri” avrebbero solo assolto al loro ruolo, ma la persona in questione aveva dimostrato esattamente il contrario. Quello che è successo è stato un atto discriminatorio, come purtroppo ce ne sono tanti. Oltre a occuparmi delle attività sportive per le persone disabili nel Csi, da più di 30 anni lavoro come educatore professionale in questo ambito. Lo vedo tutti i giorni: quotidianamente dobbiamo lottare contro i pregiudizi».

La Corte d’appello di Torino ha respinto l’appello, confermando la decisione di Biella (qui la sentenza) e sancendo quindi che il diritto allo sport non può rimanere sulla carta, ma deve essere effettivamente di tutti. Una nuova cultura della disabilità si sta quindi affermando, ma c’è ancora della strada da fare. «Per fortuna la Giustizia si è pronunciata in questo senso», commenta il rappresentante del Csi, «ma è molto deludente che si sia dovuti arrivare a questo. Purtroppo chi si mette in gioco per i suoi diritti ha ancora bisogno di passare davanti a un tribunale perché questi gli vengano riconosciuti, sembra quasi incredibile. È come se andassi al supermercato, volessi comprare una bottiglietta d’acqua e non me lo lasciassero fare: se andassi davanti alla giustizia chiaramente mi direbbero che posso, ma il fatto che si debba arrivare a questo punto è un problema, che ha radici profonde nella nostra cultura».

Ma cosa si può fare perché si diffonda una cultura dell’inclusione a tutti i livelli dello sport? Formare gli allenatori – veri esempi di vita per i ragazzi –, anche sull’utilizzo del giusto linguaggio, e promuovere manifestazioni sportive in cui si gareggi e ci si diverta tutti insieme. «Da noi le attività sono davvero aperte a tutti,nei nostri campionati nazionali si può iscrivere chiunque», conclude il responsabile Csi. «Poi è chiaro: cercheremo di far competere tra loro gli atleti più o meno allo stesso livello, perché non è nemmeno giusto gettare in acqua – per fare un esempio – un nuotatore che arrivi dieci minuti dopo gli altri. L’unica discriminante, nello sport, deve essere la disciplina stessa, che ti permette di capire se una persona è brava e può ambire a una carriera professionistica o se si limiterà ai campionati federali di base o del centro sportivo e all’attività amatoriale. L’attività sportiva è fatta di vincitori e perdenti e questo è educativo, ma si deve basare sulle capacità reali, non sul fatto che abbia i capelli rossi piuttosto che neri».

In apertura, foto di Markus Spiske su Unsplash

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