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Lo spettro della guerra atomica nei ghiacci del Polo

Una missione dell'Università di Firenze in Antartide, grazie a un carotaggio di 120 metri, analizza «glaciologicamente» i materiali e rinviene le tracce di quando, nel 1952, si sperimentavano lassù le armi nucleari

di Barbara Marini

Nell’epoca della sostenibilità e dell’educazione al riciclo, ci si può imbattere, cercando bene, negli avanzi degli esperimenti atomici al polo Nord!

Benché nessuno ci tenga molto a raccontare queste storie, pare che intorno al 1952 e successivamente, siano stati eseguiti numerosissimi test con ordigni nucleari. In particolare, durante i primi esperimenti venivano fatti esplodere in atmosfera e la radioattività sprigionata poteva arrivare anche in posti remoti e lontani dall’esplosione, come l’Altopiano Antartico, luogo dove nessuno avrebbe fatto la spia. Ma la menzogna, sepolta sotto il ghiaccio, prima o poi cede il passo all’evidenza.

Un team dell’Università di Firenze ha documentato e misurato attraverso il carotaggio, la presenza di plutonio, dovuta agli esperimenti: l’estrazione e analisi di una carota di ghiaccio, che è un vero e proprio “archivio ambientale”, attesta la presenza di tracce di plutonio-239, risalenti a test nucleari condotti in quegli anni.

«Il plutonio-239 è un marker specifico per valutare gli effetti sull’ambiente dei test nucleari iniziati negli anni ‘50 e condotti fino agli anni ’80», spiega Mirko Severi, associato di Chimica analitica dell’ateneo fiorentino. Si tratta, infatti, dell’isotopo fossile primario utilizzato per la produzione di armi nucleari: il suo ritrovamento, in primo luogo, è utile per determinare una datazione accurata degli strati nevosi: dal punto di vista glaciologico, la presenza di plutonio-239 nelle carote di ghiaccio permette, infatti, di attribuire i campioni agli anni in cui venivano condotti i test sulle armi nucleari».

La ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica Chemosphere, è stata fatta da un team coordinato appunto da Mirko Severi insieme a Rita Traversi e Silvia Becagli, un gruppo di ricerca dell’Università di Firenze. Una carota della lunghezza di circa 120 metri, prelevata tra il 2016 e il 2017 e poi trasportata e analizzata nei laboratori Unifi del polo scientifico di Sesto Fiorentino, nell’ambito di una ricerca iniziata negli anni '90 – all’interno del progetto European Project for Ice Coring in Antarctica – Epica, con azioni di ricerca in Antartide, tuttora in esecuzione.

Traversi, associata di Chimica analitica, ci avverte che «l’esistenza di tale materiale radioattivo in un posto così isolato, nella parte centro-orientale del continente a oltre 3mila metri di altitudine, dovrebbe indurre a riflettere su quanto l’azione dell’uomo impatti sul nostro pianeta. I tempi di permanenza nell’ambiente del plutonio-239 sono lunghissimi, la sua concentrazione si dimezza in 24mila anni»

«A differenza degli studi precedenti basati su tecniche di misurazione della radioattività che necessitavano di grandi quantità di campioni (qualche chilo di ghiaccio)»,aggiunge Becagli, tecnica del gruppo di ricerca, «le analisi condotte nei laboratori Unifi hanno permesso di raggiungere risultati soddisfacenti con campioni dal volume molto più ridotto. Tale “snellimento” è un vantaggio importante poiché generalmente i campioni da analizzare vengono suddivisi tra vari gruppi di ricerca; quindi, a una minore necessità di materiale per condurre le ricerche corrisponde una maggiore possibilità di eseguire ulteriori tipi di analisi».

Anche l’immagine delle distese incontaminate di ghiaccio dell’Antartide crolla, sotto il peso delle sperimentazioni nucleari.

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