Famiglia
Lo specchio della nostra fragilit
Campi nomadi: nelle loro brutture si specchiano i vizi e le colpe, il degrado sociale e il deserto umano della nostra società ..
Ricordate Il ritratto di Dorian Gray? Nel celebre racconto di Wilde i vizi di un giovane di buona famiglia non lasciavano traccia sul suo viso, ma su quello del suo alter ego, dipinto in un ritratto custodito in un?area segregata della casa, lontano dalle stanze frequentate e dagli sguardi dei visitatori. Così, mentre il protagonista restava uguale a se stesso, il ritratto imbruttiva e invecchiava, fino a rivelare un volto ributtante, orribile, specchio di tutte le oscenità e le infamie compiute. Ho sempre pensato che quella sia una straordinaria metafora dei nostri cosiddetti ?campi nomadi?. Segregati e occultati nelle più degradate periferie, tenuti lontano dallo sguardo e dal contatto, sono il nostro ritratto di Dorian Gray: nelle loro brutture, nel loro aspetto repellente, nel degrado ambientale e umano che li segna, nella sporcizia e nell?abbandono che ne sono il tratto comune, sempre, si specchiano i vizi e le colpe, il degrado sociale e il deserto umano della nostra società. Di quella che sta fuori dal campo, splendente e patinata, che sembra perfetta, senza rughe, elegante: come mister Gray.
Non so quanto il campo nomadi ci dica degli zingari – non dico dei rom, termine considerato politicamente corretto ma il cui significato è spesso sconosciuto a chi lo usa. Non so nemmeno se esistano ancora gli zingari: quanti di quel popolo migrante siano sopravvissuti alla nostra produzione di massa, ai nostri supermercati e allo spettacolo televisivo, loro che campavano di antichi mestieri, calderai, giostrai, suonatori ai matrimoni, circensi, allevatori di cavalli. E quanti ne siano oggi, ormai solo i pallidi fantasmi, cresciuti alla nostra ?scuola?, educati a diventare come noi, arroganti e egoisti, aggressivi e competitivi, consumatori estenuati e adoratori di merci. So però che il campo nomadi – come il ritratto parla di Dorian Gray – parla di noi. Dice i nostri peccati, ad uno ad uno, solo a saperlo ascoltare. Presenta il repertorio dei nostri vuoti morali e sociali, delle nostre assenze e deficienze. Intanto della nostra assenza di pietà (tragicamente visibile nei fatti di Opera), della nostra incapacità di condivisione. E di compassione, nel senso letterale del termine di <i>cum patire</i>, di soffrire insieme a un altro, o anche solo di comprenderne la sofferenza. Di saper cogliere nell?altro il tratto di umanità che ci accomuna. Lì, davvero, l?assolutizzazione di un ego fragile, sfidato, svuotato, l?affermazione gretta di un noi privo ormai di ragioni e di fondamento nel dilagare dell?individualismo possessivo e della solitudine metropolitana, si è trasformata in svuotamento dello sguardo. In cecità, cioè in incapacità di vedere gli altri, voglia di non guardarli, anzi di renderli invisibili e lontani erigendo nuovi muri, altre barriere come se non bastassero quelle delle lingue e del reddito. Lì la solitudine che mina dall?interno le nostre vite, e soprattutto i nostri quartieri periferici, si metabolizza in rancore. Anziché aprirsi agli altri, e ricercare nella relazione la risposta alle proprie pene, si rovescia in chiusura. Separazione. Ostilità verso chi sta più sotto. E anche paura: la paura del fragile, che anziché temere il forte se la rifà su chi è più debole di lui.
Perduta la ?prima radice? – per dirla con Simone Weil -, rimasti senza quella risorsa umana fondamentale che è il radicamento, la tentazione è quella di cercare il proprio capro espiatorio in chi appare vissuto da sempre nella mobilità e nello sradicamento. Di farne il simbolo della propria angoscia e del proprio vuoto: e poi il passaggio dal simbolo alla causa, dalla rappresentazione di un male all?individuazione di una qualche colpa alla sua origine, di un colpevole e dunque di un untore, è breve. Come è comprensibile, nei suoi percorsi psicologici, la voglia di impedirne, con ogni mezzo, ogni nuovo radicamento, ogni possibile ri-localizzazione. I pogrom d?infausta memoria non avevano meccanismi molto diversi: «Chi è sradicato sradica» sarà la conclusione della Weil. Malato è certo il campo, forma patologica delle nostre politiche di territorio. Ma la malattia ha origine fuori, in quella parte di città che appare sana. Qualcosa potranno fare le amministrazioni locali. Molto il volontariato, come il caso milanese dimostra. Ma senza una cultura dell?abitare (e del co-abitare) che rovesci la tendenza in corso, e riscopra il valore della relazionalità, i muri continueranno a crescere, senza riuscire, tuttavia, a celare ancora a lungo il volto sfregiato e ributtante che ci andiamo giorno per giorno plasmando.
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