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Emergenza penitenziaria

Lo scrittore Di Paolo: «Carceri senza dignità»

Paolo Di Paolo, finalista del premio Strega, ha lavorato negli istituti di pena, spiegando ai detenuti la letteratura. «Dietro le sbarre la società ti ha già cancellato, tu cancelli te stesso fino in fondo. Sono tutte cose su cui riflettiamo troppo poco. E lo dico con un senso di imbarazzo che, dalla dimensione individuale, dovrebbe tradursi in un senso di imbarazzo della collettività rispetto a questi temi»

di Ilaria Dioguardi

Dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane sono 45 i detenuti che hanno deciso di togliersi la vita, 43 uomini e due donne. L’ultimo tentato suicidio è avvenuto nell’istituto di pena sassarese di Bancali, dove un uomo si è dato fuoco ed è stato soccorso dal personale penitenziario. «La dicotomia dentro-fuori è subito chiamata in causa dal tema del carcere», dice lo scrittore Paolo Di Paolo. Lo rintracciamo al telefono poco prima di uno degli incontri a cui sta partecipando, in tutta Italia, come finalista del premio Strega con il suo Romanzo senza umani (Feltrinelli Editore).

Di Paolo, cosa può dirmi di questa dicotomia dentro-fuori?

Chiunque sta fuori ha una colpa, che è quella di non immaginare molto frequentemente cos’è quel dentro. Sembra una frase astratta, ma credo che la responsabilità di base che ha un cittadino è di pensare che esista una sorta di “città nella città”, di “cittadinanza nella cittadinanza”: è quella di persone che per reati, che possono essere anche di estrema gravità, sono chiusi all’interno del carcere. La dignità che questa permanenza nel carcere dovrebbe comunque mantenere salda è una dignità che, invece, noi dimentichiamo e trascuriamo. E non è questione di essere né caritatevoli in modo peloso (come si diceva una volta) né ipocriti. Posso capire perfettamente che molta parte della cittadinanza a cui alludo (quella del fuori) ha delle ragioni perché sia garantita una pena o, in qualche misura, siano tenuti dei limiti che impediscano a certe persone di nuocere, se hanno nuociuto. Però c’è un passaggio ulteriore, che ha a che fare con l’etica.

Qual è questo passaggio?

Ha a che fare con la costruzione della immaginazione in senso più nobile in assoluto, immaginazione che presuppone se non un’empatia, che è forse una parola un po’ logora, una capacità di immedesimazione nella vita degli altri. Quella vita degli altri non può essere una vita che vale zero, nonostante (sottolineo “nonostante”, so che è una parola impegnativa) il danno che è stato fatto a qualcuno o a qualcosa.

A tal proposito, nella prefazione al libro Parlami dentro. Oltre il carcere: lettere di (r)esistenza, a cura di Marilù Ardillo (edizioni La Meridiana), lei scrive: «C’è qualcosa che siamo poco disponibili a fare. Non ci viene istintivo: immaginare le vite degli altri. […] è molto raro che il “muscolo dell’immaginazione”, spesso così atrofico, reagisca al pensiero di esistenze difficili, in qualche modo indesiderabili. Tanto più è difficile immaginarle quando sono, nei fatti, poco visibili o addirittura invisibili».

In questo libro ci sono lettere scambiate da sconosciuti, in una sorta di “trattativa umana” in cui ci si riconosce o si tenta di riconoscersi. Nel volume mi colpiva soprattutto quel tipo di persona che, di fronte alla storia di un detenuto, diceva che, poiché non conosceva la sua storia, non la poteva giudicare. Ma riusciva a parlargli come a un essere umano innanzitutto: questo è un presupposto del riconoscimento etico, è la preliminare messa a fuoco dell’umanità di entrambi. Non è che, nel momento in cui si discute l’umanità, si fa un discorso che può presupporre un’etica. Da qualunque punto di vista, questa contemplazione dell’altro (con tutti i suoi difetti, i suoi limiti, le sue colpe) è l’unica cosa che può costruire un terreno dove immagino cosa vuol dire essere espropriati della libertà. Questo non eliminando il giudizio, ma sospendendolo per il tempo che mi consente di capire cosa vuol dire non vivere liberi.

«Capire cosa vuol dire non vivere liberi» è il punto da cui partire?

Capire cosa vuol dire non vivere liberi è una premessa inevitabile, inaggirabile, necessaria di qualunque discorso sul carcere. Tanto più quando si entra in carcere per reati che non giustificano il passaggio in carcere. Una civiltà intelligente è una civiltà che riesce a capire se ci sono occasioni alternative e se quello spazio lì (come dice da decenni Luigi Manconi) agisce in bene e non in male, che non solo umilia e mortifica ma che aiuta ad essere una persona diversa. Delle condizioni di vita nelle carceri parlano i numeri sul suicidio, le rivolte nelle carceri, il malessere manifestato da tantissimi detenuti, le celle sovraffollate (che ho visto). In questi giorni si superano anche i 35 gradi, non riusciamo a stare neanche nelle nostre case dotate di aria condizionata, bisognerebbe capire cosa significa stare in una cella minuscola con temperature così alte. Sembrano questioni pratiche, accessorie, in realtà sono la sostanza dei fatti. La vita deve mantenere una sua dignità qualunque sia lo spazio in cui questa vita è destinata.

Le è capitato di incontrare i detenuti nelle carceri?

Sì, mi è capitato, come a molti altri scrittori, di visitare in qualche circostanza le carceri, in ragione del fatto di incontrare detenuti e detenute per corsi di scrittura, di lettura. È evidente che, trovandomi lì, in situazioni piuttosto faticose da un punto di vista emotivo, mi sono reso conto (per quel poco che ci si può rendere conto) che non ci sono condizioni accettabili, di dignità minima. Nelle carceri non c’è il minimo sindacale della dignità. Il nostro è un Paese che non riesce a capire, di fronte a numeri così alti di suicidi nelle carceri, che c’è da garantire quella dignità in termini di spazi, in termini di vita, che è una vita deprivata della libertà. Forse il carcere ha un senso se non diventa un carcere a vita. Se la pena è riabilitativa, l’ergastolo nega la possibilità che sia riabilitativa. In quello spazio e in quel tempo le persone dovrebbero tentare di riflettere, di maturare, di cambiare. Non lo possono fare in uno spazio fisico che rende ancora più crudamente incattiviti, depressi, angosciati, forse addirittura mortificati e umiliati dal punto di vista delle condizioni di dignità umana.

Raccontare la propria storia significa marcare uno spazio di dignità. Se so raccontare la mia storia non devo necessariamente assolvere o cercare un alibi, se racconto la mia storia esisto

Come ha vissuto i momenti che ha passato con i detenuti nelle carceri?

Li ho sempre vissuti con grande turbamento e imbarazzo. In tutti gli incontri fatti (anche in un istituto penale minorile, in un carcere femminile, in una sezione di massima sicurezza), ho vissuto un profondo imbarazzo. È un’esperienza vertiginosa che richiamo anche nella sua ingenuità perché, se non parto da quell’imbarazzo, non parto da ciò che mi ha messo in una condizione che non è quella più consueta. Se esiste nella vita una situazione in cui tu riconosci un imbarazzo, quella situazione merita di essere interrogata.

Qual è stata la sensazione, l’emozione più forte che ha avuto in carcere?

La cosa più forte che ho avuto in carcere, nel dover parlare di scrittura e di letteratura a persone di cui ignoravo la pena e le ragioni della pena, è stata il costringere me stesso a superare quell’afasia perché sentivo che, da parte di quelle persone, c’era una curiosità forte. Mi sentivo, in quel contesto, il portatore di qualcosa di assolutamente accessorio, superfluo. E sbagliavo.

In carcere la società ti ha già cancellato, tu cancelli te stesso fino in fondo. Sono tutte cose su cui riflettiamo troppo poco. E lo dico con un senso di imbarazzo che, dalla dimensione individuale dovrebbe tradursi in un senso di imbarazzo della collettività rispetto a questi temi

Perché sbagliava?

Pur essendone in larga parte molto distanti, sia come esperienza di lettura sia come esperienza effettiva di scrittura, del mestiere dello scrittore li affascinava la possibilità di avere le parole per raccontare la propria storia. Chiunque abbia fatto un corso di scrittura in carcere ha sentito questa cosa potentissima che è la necessità di parole. In carcere le persone che hai davanti spesso non dispongono di un lessico molto articolato per ragioni culturali, socioculturali, a volte non dispongono della lingua italiana e fanno fatica. E senti che la cosa che più le accende, e letteralmente le accende, è il capire come si racconta la propria storia.

Può spiegarci, secondo lei, perché?

Loro avevano delle storie da raccontare, io disponevo delle parole: sembravano quasi volersi appoggiare al mio sapere, narrativo più che letterario. Questo perché raccontare la propria storia significa intanto marcare uno spazio di dignità. Se so raccontare la mia storia non devo necessariamente assolvere o cercare un alibi, se racconto la mia storia esisto.

E se non racconto la mia storia?

Non esisto per nessuno, non sono nessuno. E quel “non sono nessuno” è qualcosa che ti abbatte al punto da sentirti uno scarto. E lo scarto si autoespelle dalla società, e a volte si arriva all’estremo del suicidio. Al di là del fatto che nessun suicidio è fino in fondo razionalizzabile c’è comunque una negazione di sé che equivale a una cancellazione. In carcere la società ti ha già cancellato, tu cancelli te stesso fino in fondo. Sono tutte cose su cui riflettiamo troppo poco. E lo dico con un senso di imbarazzo che, dalla dimensione individuale dovrebbe tradursi in un senso di imbarazzo della collettività rispetto a questi temi.

Foto dell’intervistato


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