In un modo o nell’altro, dobbiamo scongelare le due variabili spazio/tempo del lavoro e cessare una volta per tutte di vergognarci della libertà dell’orario.
La trasformazione digitale non è una cosa nuova e in parte permette questo “scongelamento”, attraverso l’adozione di strategie e comportamenti di smart working corretti.
Si, perché di pratiche scorrette ne abbiamo visto tantissime in questo periodo e come ci ricorda molto bene Bentivogli di “smart” c’è stato davvero poco e abbiamo fatto più che altro telelavoro. Pensiamo solo alle moltissime donne che hanno subito un input arraffazzonato e non organizzato dalla propria impresa che ha avuto come risultato quello di mettere ancora più in risalto lo stereotipo di genere, che in Italia non riusciamo proprio ad abbandonare.
Siamo vincolati da un lucchetto, prima di carne e ora digitale, che ci obbliga a pensare che una donna debba assolvere ai compiti familiari senza un meccanismo equo che rischia di far vivere la casa più come una prigione che come una libera scelta. Nessuna sorpresa che il tasso di occupazione femminile, prima della pandemia, era già il più basso in Europa (49,5%), con salari inferiori rispetto agli uomini.
Uno squilibrio che rischia di esplodere ulteriormente se perderemo l’occasione di ripensare il lavoro su obiettivi che non può essere più focalizzato solo su orari e presenze. Siamo passati da circa 500.000 persone coinvolte in pratiche smart working a 4 milioni e mezzo a luglio 2020 e la domanda che dovremmo porci è se abbiamo guadagnato solo in termini di quantità, spostamenti e tempo in ufficio, o anche di qualità della vita.
Avendo sentito e incontrato centinaia di imprenditrici e imprenditori in questi ultimi mesi capisco bene che lo sforzo nel cambiare la cultura aziendale non è banale.
Bisogna modificare il sistema di gerarchie e lo stesso modello di business di una impresa, perché lo smart working non può riguardare solo una parte dell’azienda, come è stato fatto alcune volte per le strategie di Responsabilità Sociale che sono state appannaggio solo di alcuni reparti. Ci deve essere un vero e profondo investimento in termini di consapevolezza e visione a medio/lungo termine.
La maggior parte di queste esperienze, infatti, non erano preparate. Hanno reagito in una logica emergenziale ed episodica, convinte che il tutto passasse presto e si ritornasse alla tanto agognata normalità (una tra le peggiori eredità del lockdown).
Il pensiero prioritario è stato quello prima di ripensare lo spazio fisico e solo dopo, quello di valutare quale metodo di lavoro applicare. Sembra quasi di essere diventati un popolo di arredatori fai da te dell’Ikea, un po’ come sta accadendo nel mondo della scuola, che investe tutto negli accessori e non nelle persone che creano Luoghi di lavoro (e formazione) ricche di senso, invece di momentanee postazioni artificiali. In caso contrario, qualsiasi spazio sarà un luogo buio di relazioni e di interazioni sociali magari ricco di una secondaria connettività (cavi e luci!)
Sicuramente dobbiamo fare i conti con organizzazioni e imprese che sono state fondate sul principio del controllo. Anche alcune tra le più etiche e democratiche alla fine hanno questo spirito. Se partecipate alle riunioni tra presidenti (troppe volte uomini) e i loro team di lavoro, la gerarchia che viene applicata nei momenti decisionali e strategici è forte e la differenza tra il mondo del Terzo Settore o delle imprese sociali e quello privato standard sono davvero poche. Ovviamente ci sono anche tante e piacevoli eccezioni che condividono strategie e scelte in modo cooperativo.
Per questo motivo, la rifondazione che si basa sul principio più ampio di libertà è qualcosa di complesso (no la libertà di fare ciò che si vuole ma la libertà di realizzare un obiettivo condiviso nelle modalità che mi permettono di aumentare il benessere personale, della mia famiglia e dell'organizzazione di cui faccio parte. A quella parola va sicuramente associata la parola responsabilità.
Non farlo, significa molte cose. Non solo il fatto di predicare bene e razzolare male ma anche di soffocare enormemente la produttività (tema caro a qualsiasi utilitarista della porta accanto).
Bisogna sapere lavorare su progetti e su obiettivi, senza per forza burocratizzare tutto. In Italia, infatti, siamo un po’ ossessionati dal fatto di regolare tutto. Se facessimo questo, rischieremmo di regolare il lavoro agile con dei paradigmi davvero vecchi (pensate ad esempio a quello che tristemente abbiamo letto con la circolare che l’Inail ha inviato sullo “smart working outdoor” che sembrava l’incipit di un film di Dario Argento, dato che la reazione principale è stata quella di far accapponare la pelle)
Partiamo invece da alcuni casi virtuosi che hanno saputo adottare strategie di smart working ben congegnate. Ce ne sono molti in Italia e nel Mondo.
Guardate ad esempi i casi di "Employer branding" come quello della Regione Emilia Romagna che ha deciso di coniugare autonomia e appartenenza comune, scegliendo di non porre vincoli sul numero di giornate effettuabili da remoto ma andando incontro alle diverse esigenze delle persone. Ognuno dei lavoratori/lavoratrici, ha ricevuto in dotazione un pc portatile, smartphone, cuffie e zaino con il brand della Regione. Si è incentivata una mobilità sul territorio e al tempo stesso aumento una riconoscibilità che prima di allora non è stata mai presa in considerazione.
Oppure, prendiamo come riferimento il capitolo della formazione che, quando è rivolta sia ai dipendenti che ai manager, è l’aspetto dal quale partire per qualsiasi piano di smart working. Su questo la “Peaple Strategy” di MailUp è stata all’avanguardia. L’obiettivo è stato quello di favorire un reale cambio di mentalità all’interno dell’azienda (non rivedendo solamente gli spazi) ma ripensando ai meccanismi di fiducia, responsabilità e gestione degli obiettivi tra i team di lavoro. Il progetto ha consentito di lavorare da luoghi diversi fino a un massimo di tre giorni a settimana, garantendo diverse postazioni accessibili lungo la città.
Insomma, approfittiamo del caldo di questi giorni per sciogliere le due variabili spazio/tempo, che non troveremo "fuori da noi" ma dentro i nostri schemi mentali. E scegliamo consapevolmente il nostro grado di libertà dall’orario e dal cartellino.
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