Welfare

Livia Turco: «Che fine ha fatto la legge delega sulla non autosufficienza?»

Il 28 gennaio scorso è stata inviata a Palazzo Chigi una Bozza di legge delega dal Ministero del lavoro e delle Politiche sociali in concerto con il Ministero della Salute. Il testo è frutto delle riflessioni del Gruppo di lavoro “Interventi sociali e politiche per la non autosufficienza” composto da accademici, esperti e operatori sul campo. Molte le novità della Legge delega proposte. Che qui la presidente del Gruppo di lavoro ci illustra

di Riccardo Bonacina

Livia Turco, già ministro per la Solidarietà sociale e poi della Salute, nei mesi scorsi ha presieduto il Gruppo di lavoro “Interventi sociali e politiche per la non autosufficienza” del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Istituito il 26 maggio 2021, il Gruppo di lavoro composto da don Vinicio Albanesi, Pietro Barbieri, Fabrizio Barca, Aldo Bonomi, prof. ssa Nerina Dirindin, Cristina Freguja, Alessandro Goracci, Cristiano Gori, Angelo Marano, Paolo Onelli, Antonella Pezzullo, Francesco Poli, Alfonsina Rinaldi, Nino Santarelli, Miriam Totis, Tiziano Vecchiato, ha scritto il testo di una Legge delega così intitolata, “Norme per la promozione della dignità delle persone anziane e per la presa in carico delle persone non autosufficienti” (il testo in allegato a fondo pagina).

«C’è stata una mescolanza di competenze, saperi accademici accanto a chi lavora sul campo e nelle amministrazioni», racconta Livia Turco, «Un mix che ha permesso alla Commissione di lavorare con profondità, trasparenza e riservatezza su un tema tanto importante si è riusciti a discutere con grande libertà e tesi a scrivere un progetto comune. Abbiamo discusso molto dei Patti sociali territoriali trasversali a tutte le politiche, poi era nostro dovere applicarci al tema della non autosufficienza essendo il Ministero del lavoro titolare del Fondo nazionale della non autosufficienza che scadeva nel 2021 e quindi bisognava approntare il secondo Piano nazionale per la non autosufficienza agganciandolo alla legge di Bilancio per piantare alcuni chiodi, i primi i Livelli essenziali delle Prestazioni Sociali (Leps), e questo è avvenuto con la legge 234/dic 2021 all’art. 1 commi dal 159 – 171 definisce i Leps della non autosufficienza a partire dalla domiciliarità, alle forme di sollievo, alle nuove forme di abitare solidale, alla formazione degli operatori».

Che fine ha fatto la legge delega? A noi è arrivata in redazione in bozza da Palazzo Chigi il 1 febbraio scorso, ma di tempo ne è passato…

L’ufficio legislativo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha trasmesso questo testo concertato con il Ministero della salute lo scorso 28 gennaio alla Presidenza del Consiglio. È prassi che quando a Palazzo Chigi arriva un testo concertato da due ministeri si proceda, tanto più quando trattasi di materia prevista dai collegati alla Finanziaria, quindi una delle priorità, una priorità prevista pure dal Pnrr, è quindi molto strano che a distanza di quasi un mese non sia successo nulla. Stranissimo. Per questo sento il dovere di lanciare un campanello d’allarme perché se lasciamo che il tempo passi ci troveremo a scadenza di legislatura senza aver legiferato su un tema tanto importante, sempre più importante, come la non autosufficienza. La politica deve battere un colpo, interessa questa legge o no? I ministri competenti battano un colpo e la Presidenza del Consiglio dica se questa legge è da fare o no.

Anche i più esperti parlano ormai di Babele intorno al tema degli anziani, Commissioni che si aggiungono a commissioni.

Vero è una Babele, e mi è suonato un po’ strano che nel momento in cui arrivava a Palazzo Chigi una legge quadro concordata tra due ministeri a Palazzo Chigi si insediasse una nuova Commissione e che poi sia seguito l’assordante silenzio sul tema. Non è possibile che questa legislatura si concluda senza avere una legge decente sugli anziani, anche perché occorre che la legge sulla non autosufficienza e quella sulla disabilità si parlino. Parliamo di semplificare la vita delle persone e poi complichiamo i percorsi per arrivarci. Bisogna muoversi, la legge che è stata inviata venga diramata e si cerchi l’interlocuzione con i sindacati che chiedono di procedere e di interloquire. Poi bisogna fare i decreti attuativi, il tempo è poco.

Perché è importante questa legge?

Innanzitutto per il suo impianto culturale. Nel paese della denatalità e dell’invecchiamento davanti all’ emergenza Covid ci si è trovati spiazzati proprio sul versante della cura dei figli e delle persone anziane. Nella pandemia i più colpiti sono stati i bambini e gli anziani, un paradosso in un Paese a natalità zero e ad alto invecchiamento. La pandemia ha riproposto l’importanza dei servizi sociali, il loro valore, ha dimostrato anche che negli anni c’è stata una regressione culturale ritenendo che la fase che conta nella vita è quella centrale, quella produttiva. Per questo abbiamo ritenuto di mettere al centro le stagioni della vita e quindi il valore della stagione della vita anziana, stagione di vita attiva e a cui restituire una dignità.

Il secondo valore di questa legge è il welfare di prossimità, che è quello che valorizza in ogni caso, anche dove c’è fragilità, le competenze delle persone e il contesto comunitario e le relazioni umane, individuando nella solitudine uno dei più grandi problemi del nostro tempo, perciò le relazioni umane e comunitarie, sono messe al centro. Il welfare di prossimità è anche quello che promuove la partecipazione attiva dei cittadini ed è per questo che sono molto affezionata all’art. 9, quello che propone i Patti territoriali sociali per lo sviluppo inclusivo che promuove la democrazia deliberativa attraverso l’ascolto dei cittadini e il loro coinvolgimento come parte attiva della decisione politica, questo è tanto più importante laddove si parla di non autosufficienza proprio per mettere in risalto come la promozione delle capacità deve riguardare tutta la popolazione.

Cosa offre ai cittadini e alle famiglie?

Innanzitutto quello che io chiamo l’amico di famiglia, il punto unico di accesso che evita l’effetto flipper e lo smarrimento classico quando non sai bene cosa fare. Per evitare che le persone debbano fare le acrobazie per intercettare i vari assegni e bonus e che ci sia chi prende tutto e chi non prende niente, vengono istituiti questi Punti unici di accesso. Oggi davanti ai bisogni di una persona anziana non autosufficiente, il familiare non sa da dove partire: dove deve andare, a chi deve rivolgersi? Il medico di famiglia ti indirizza all’Asl, poi l’Asl ti manda a fare vari adempimenti, poi devi andare all’Inps… C’è la necessità proprio di orientare le persone rispetto alle opportunità che hanno. Serve una funzione di accompagnamento e un luogo che valuti i bisogni di quella persona, che faccia la cosiddetta valutazione multidimensionale (e si presuppone che la facciano insieme l’assistente sociale e il personale sanitario); questo dovrebbe essere il primo momento dell’integrazione socio-sanitaria. Il Punto unico d’accesso è allora un nodo fondamentale. Noi poi abbiamo aggiunto che il Punto unico d’accesso deve stare nelle Case di comunità prevista dal Pnrr. L’obiettivo è arrivare a un progetto personalizzato definito insieme alla persona e i suoi familiari, con un responsabile di progetto e un budget di cura. Abbiamo dedicato un articolo alla semplificazione delle procedure per la certificazione della non autosufficienza visto che il rompicapo delle famiglie è anche quello del girovagare tra vari sportelli.
L’impianto della legge prevede l’approvazione della domiciliarità, come assistenza domiciliare ma anche come dimensione che deve caratterizzare tutte le forme di intervento. Domiciliarità non è soltanto lo stare a casa, l’assistenza domiciliare. La legge promuove una dimensione domiciliare che orienti anche l’organizzazione dei servizi, le modalità di presenza in qualunque struttura: anche una Rsa, una casa di riposo. Domiciliarità che deve diventare una sorta di cultura trasversale, per cui qualunque struttura, luogo di accoglienza deve prevedere degli spazi per la dimensione della relazione, oltre che della cura.
Inutile dire che la realtà del nostro paese, sotto questi aspetti, è molto arretrata. Chiunque abbia avuto a che fare con il problema della non autosufficienza di un familiare o amico lo sa bene. L’assistenza domiciliare oggi in Italia (quando va bene) sono due ore la settimana di una benedetta Oss che viene a casa e ti aiuta a svolgere le funzioni vitali. L’assistenza domiciliare, la cosiddetta Sad, che offrono i Comuni, che dovrebbe aiutare le persone a svolgere le funzioni della vita quotidiana, è insomma molto ridotta e molto disomogenea. Poi c’è l’assistenza domiciliare integrata, l’Adi. Sempre tradotto molto concretamente: un’infermiera che interviene in caso di medicazioni, prelievi, piaghe da decubito. Un po’ poco, no?

Il tema della governance e dell’integrazione socio sanitaria è il punto che più ha sollevato discussione…

È punto che però io difendo perché credo che dopo vent’anni di leggi e di norme sull’integrazione socio sanitaria a partire dalla legge 229/1999 poi nella 328/2000 e poi in atti di indirizzo successivi, è opportuno chiederci come mai questa integrazione resta un fantasma. Persone che stimo sostengono che se si vuole costruire una domiciliarità innovativa e integrata e se si vuole superare la sperequazione tra domiciliarità sociale e sanitaria bisogna che il carico prevalente sia sulla sanità, sono anch’io d’accordo che la sanità deve fare molto di più e che deve farsi carico di più risorse (sono curiosa di vedere come saranno le Case di comunità e spero di non dover leggere ancora che la figura dell’assistente sociale è “vivamente raccomandata”), ma questo non risolve il problema dell’integrazione. Lo si risolve con la nascita dei distretti sociali così come esistono i distretti sanitari. Capisco che dopo decenni di trasferimenti monetari e di bonus possa sembrare direzione utopistica ma io sono convinta che è l’unica concreta. Bisogna superare lo sbriciolamento, l’impoverimento del sociale strutturandolo dal punto di vista anche della governance e non soltanto dal punto di vista dei diritti sociali esigibili. Lo si è visto con il Reddito di cittadinanza se hai soltanto lo sportello Inps e non hai l’assistenza sociale, se non hai la presa in carico delle persone rischi di buttare le risorse. Ecco perché nella legge insistiamo molto sugli ambiti territoriali sociali, già previsti nella 328 e anche nel Reddito di inclusione sociale, noi lo proponiamo come punto dirimente e fondamentale, il titolare è l’ente locale ma questi ambiti devono esserci e funzionare. Senza questo non avrai mai un sociale adeguato e quindi non avrai mai integrazione se da una parte hai un ambito strutturato in grado di fare programmazione e monitoraggio e con personale adeguato. e dall’altra parte qualche assessore di buona volontà e qualche assistente sociale.

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