Sostenibilità

L’Italia torna all’atomo E ancora delle vecchie scorie non sa che fare

90mila metri cubi di eredità

di Elisa Cozzarini

Ancora incerto il destino dei rifiuti radioattivi provenienti
dagli impianti non più in funzione da 20 anni. Una pratica da
5,2 miliardi che scatena proteste e polemiche Occupano circa 90mila metri cubi i rifiuti radioattivi provenienti dagli impianti nucleari in Italia, non più in funzione da almeno vent’anni. Il dato è fornito dal ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola a quotidianoenergia.it. Secondo Sogin, l’azienda nata dieci anni fa per gestire la chiusura del ciclo di vita degli stabilimenti nucleari italiani, lo smantellamento – decommissioning in gergo tecnico – costa complessivamente 5,2 miliardi.

Da Nord a Sud
La mappa degli impianti italiani disegna una cicatrice quasi lineare sul territorio, dal Piemonte alla Basilicata, dall’impianto di ricerca sul ciclo del combustibile nucleare di Saluggia (Vercelli) a quello di Trisaia di Rotondella (Matera), passando per le quattro centrali nucleari di Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Sessa Aurunca (Caserta), senza dimenticare l’impianto di fabbricazione del combustibile di Bosco Marengo (Alessandria) e quelli di Casaccia (Roma).
«In nessun Paese al mondo esiste un deposito permanente per le scorie ad alta radioattività, che alla fine rimangono dove sono state prodotte», spiega il professor Vincenzo Balzani, docente di Chimica all’università di Bologna, membro del Comitato scientifico del WWF. «Anche negli Stati Uniti si è dovuta abbandonare l’ipotesi di realizzare un deposito definitivo in Nevada, Yucca Mountain, e le scorie rimangono in cassoni di cemento sui piazzali delle centrali. D’altra parte è difficile pensare di poter avere garanzie della messa in sicurezza almeno per i prossimi 10mila anni», prosegue. «In Italia non esiste nemmeno un deposito centrale per le scorie a media e bassa radioattività. Se ne parla, ma per ora non è stato individuato alcun sito, anche perché chi accetterebbe di averlo vicino casa? E anche questi rifiuti restano in loco, oppure vengono riprocessati all’estero, per essere poi rispediti indietro», dice ancora Balzani.

Costi stellari
A Bosco Marengo, ad esempio, è in corso una battaglia tra la Sogine egli ambientalisti, che vogliono bloccare la trasformazione dell’impianto fabbricazioni nucleari in un deposito di scorie che di fatto sarà permanente. A novembre 2008 il ministero dello Sviluppo economico ha dato il via libera al decommissioning, che dovrebbe concludersi entro quest’anno, primo in Italia, a meno che il Tar del Piemonte non decida di sospendere le attività.
Anche a Saluggia i cittadini protestano contro il progetto di un bunker, definito temporaneo, di cemento armato da 46mila metri cubi, su quattro chilometri quadrati, che Sogin si starebbe preparando a realizzare in seguito all’autorizzazione del Comune. Qui, come in tutta Italia, dallo stop al nucleare è emerso il problema mai risolto della messa in sicurezza delle scorie.
«Proteste e ricorsi ci sono sempre anche negli Stati Uniti, quando si tratta dei rifiuti nucleari», continua Balzani, «non si parla molto però di un’altra questione cruciale: lo smantellamento degli impianti una volta chiusi, dopo 30/40 anni di funzionamento. Che ne facciamo? In Gran Bretagna hanno deciso di lasciarle sotto sorveglianza per cento anni, senza farci niente. Solo dei robot potrebbero smantellare una centrale atomica. Intanto si richiedono capitali immensi e tempi lunghissimi, anche solo per la sorveglianza degli impianti. Ecco un’altra ragione per cui una banca o un privato non deciderebbero mai di investire sul nucleare, se non ci sono le garanzie statali. Economicamente non conviene. Intanto sulla bolletta elettrica noi cittadini continuiamo a pagare per la gestione delle scorie della passata parentesi nucleare italiana».


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