Economia

L’Italia e quella crescita inclusiva che non c’è

Il World Economic Forum ha presentato il primo studio sulle disparità di reddito e sull’inclusione sociale. L’Italia è tra i paesi che spendono meno rispetto al Pil per il welfare in voci come pensioni, sanità, sussidi di disoccupazione, aiuti alle famiglie

di Monica Straniero

Il World Economic Forum (Wef), l’organizzazione che ogni anno riunisce a Davos i massimi esponenti del mondo politico e finanziario mondiale, ha presentato a settembre il primo studio sulle disparità di reddito e sull’inclusione sociale. Una delle conseguenze infatti della crisi è stata quella, prevedibile, di far tornare di moda, almeno a parole, il concetto di equità. L'obiettivo dello studio è "migliorare la comprensione di come i paesi possono utilizzare i meccanismi istituzionali e gli incentivi di politica per rendere la crescita economica più socialmente inclusiva”, vale a dire far sì che la crescita si traduca in miglioramenti generalizzati nel tenore di vita di tutti i cittadini.

In particolare l'Inclusive growth and development report 2015 si basa sul presupposto ineccepibile che le politiche redistributive, di per sé, non sono in alcun modo antagoniste delle crescita. Non esiste alcuna dinamica economica che imponga una scelta fra l’attuazione di politiche redistributive o di politiche volte alla crescita. Eppure secondo il Wef, i Paesi hanno fatto ben poco per tradurre in azioni concrete le discussioni sulla disuguaglianza.

Così al fine di valutare le strategie dei governi messe a punto per tentare di migliorare il rapporto tra crescita economica ed uguaglianza, lo studio suddivide i 112 Paesi oggetto del campione in base al grado di sviluppo. La metodologia usata per consentire confronti significativi tra i diversi modelli di crescita inclusiva e i rispettivi punti di forza e di debolezza, ricorre ad oltre 140 indicatori quantitativi, raggruppati a loro volta in sette aree cruciali, (istruzione, occupazione e retribuzioni, imprenditorialità, intermediazione finanziaria, corruzione, servizi e infrastrutture di base, trasferimenti fiscali). Seppure in molti dei parametri considerati, alcuni paesi in via di sviluppo fanno meglio non solo dell’Italia ma anche di altre economie con redditi molto più elevati.

Dal confronto tra le 30 economie, dal Regno Unito alla Germania, dall’Australia agli Stati Uniti, l’Italia occupa le posizioni più basse per l'alto livello di corruzione e la scarsa etica della politica e del business, con inevitabili ripercussioni in tutti gli altri settori. I fattori maggiormente problematici per aprire un’impresa in Italia, come in Tagikistan, risultano essere infatti l’accesso al credito, l’elevata tassazione e la poca trasparenza del sistema burocratico che non permettono di operare in un clima d’affari trasparente e non discriminatorio. Questi fattori sono considerati inclusivi in quanto essenziali per garantire a chiunque la possibilità di partecipare e beneficiare della crescita economica.

Non stupisce quindi che il rapporto collochi l’Italia tra i paesi con il tasso di disoccupazione più elevato, ed è altrettanto largo il numero di lavoratori in part time involontario, o con occupazione precarie. Tra i paesi avanzati, in Italia e in Repubblica di Corea la partecipazione delle donne al lavoro è piuttosto bassa, mentre il divario retributivo di genere, o gender pay gap, rimane alto.

Sul lato del Welfare, Il Belpaese risulta tra le nazioni che spende di meno rispetto al Pil, in pensioni, sanità, sussidi di disoccupazione, aiuti alle famiglie. Un sistema di protezione sociale che non è né particolarmente generoso, né particolarmente efficiente – si legge nel rapporto – accresce il senso di precarietà e di esclusione del paese.

Scorrendo il rapporto troviamo l’Italia è in fondo alla classifica anche per le infrastrutture di base e digitali, per l’inclusione del sistema finanziario, per l’efficacia delle politiche del Governo nella riduzione della povertà e per lo spreco del denaro pubblico. E all’ultimo posto per l’entità e l’effetto della tassazione sugli incentivi sia al lavoro, sia agli investimenti. Lo studio infine riporta un ulteriore classifica in relazione ai principali indicatori macroeconomici. Anche qui il nostro paese non sta messa bene in termini di crescita di Pil pro-capite degli ultimi dieci anni e di debito pubblico.

Una situazione seria ma non disperata. Perché secondo il Wef per tutti i paesi c'è un ampio margine di miglioramento. “Nessuna nazione è un top performer e questo fa supporre che non esista una politica ideale o un mix di strategie istituzionali ottimale per favorire una crescita economica inclusiva”. Ma i nodi al pettine per l’Italia sono tanti e il rapporto li mette tutti a nudo quando conclude sottolineando che gli stati con un Global Competitiveness Index (GCI) elevato, l’indice che misura la competitività di un paese, sarebbero comunque in grado di garantire una crescita più sostenibile e inclusiva.

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