Montagna e clima

L’Italia della neve e l’urgenza di un piano B

In provincia di Bergamo un progetto di collegamento tra due stazioni sciistiche (costo stimato 70 milioni di euro) divide una comunità. È uno dei tanti episodi che vedono contrapposte due idee di futuro per la montagna. Ne abbiamo parlato con Maurizio Dematteis, scrittore e giornalista, che ha attraversato lo stivale per raccontare quel che resta (e quel che rinasce) dalla stagione dello sci di massa

di Daria Capitani

Un progetto di collegamento tra due stazioni sciistiche in provincia di Bergamo (costo stimato 70 milioni di euro, richiesta di finanziamenti pubblici per circa 50) e due petizioni. Una per il no, firmata dal collettivo terreAlt(r)e, nato per opporsi al piano perché «comporterebbe lo stravolgimento delle zone interessate per la creazione di piste, l’inserimento di nuovi impianti e un traforo per il passaggio di una funicolare lungo 450 metri […], oltre alla creazione di un bacino per l’innevamento artificiale in un territorio carsico». L’altra, lanciata dal sindaco di uno dei due Comuni coinvolti, per il sì: «La Valle Seriana si sta spopolando», si legge sulla piattaforma change che ospita entrambe le raccolte firme, «e le varie associazioni ambientaliste si permettono di dire no […]. Noi vogliamo vivere e non sopravvivere nei nostri territori».

È soltanto l’ultimo di una serie di episodi che vedono contrapposte due idee di futuro per la montagna. Da un lato chi crede negli impianti sciistici di massa come unica risorsa in grado di dare linfa a occupazione e servizi, dall’altro chi è alla ricerca di un piano B per il turismo e l’economia invernale, tenendo conto delle proiezioni sul cambiamento climatico. Come se ne esce? Lo abbiamo chiesto a Maurizio Dematteis, scrittore e giornalista, direttore dell’associazione Dislivelli, nata nel 2009 a Torino per favorire la collaborazione di competenze multidisciplinari nell’attività di studio, ricerca e informazione sulle terre alte.

Inverno liquido

È uscito nel 2022 “Inverno liquido: la crisi climatica, le terre alte e la fine della stagione dello sci di massa”, il libro che Dematteis ha pubblicato insieme a Michele Nardelli. Per scriverlo, i due autori hanno impiegato circa due anni e mezzo, scanditi da incontri lungo lo stivale: imprenditori e amministratori locali, operatori, residenti, testimoni di un mondo che sta cambiando. Storie di fallimenti e riconversioni, ma anche qualche segno di rinascita. Che cosa ha rappresentato per la montagna italiana lo sci di massa? E che ne è oggi di quella storia? «La premessa fondamentale è che il sistema dello sci da discesa negli ultimi sessant’anni ha permesso ad alcune aree nelle Alpi e negli Appennini di creare reddito e tenere vivi i servizi», spiega, «in linea con quella che è la cultura dell’inurbamento. Penso a realtà come Bardonecchia, Sestriere, Livigno e Cortina d’Ampezzo».

Lo scrittore e giornalista Maurizio Dematteis.

L’altra faccia della medaglia, però, fotografa l’assestamento di un sistema monoculturale che ha generato anche grossi squilibri sui territori: «Infrastrutture più curate e innovative hanno generato un aumento degli affitti del tutto simile ai fenomeni di gentrificazione nelle grandi città. Con il venire meno di quello che il sociologo Aldo Bonomi chiama “fordismo alpino”, si perde tutta una fetta di turismo dai centri urbani verso le stazioni in quota (i torinesi in direzione Sestriere e Bardonecchia, i milanesi verso Livigno o Bormio). Questa realtà non esiste più per una somma di motivi: il cambiamento climatico, la crisi economica, un mutamento culturale».

Dematteis definisce il presente del turismo invernale legato allo sci da discesa come «dicotomizzato: da un lato le piccole stazioni sotto i duemila metri che non vedono un futuro, dall’altro le grandi stazioni sopra i duemila che stanno investendo in infrastrutture e si rivolgono non più al turismo di massa ma a un turismo internazionale come quello dei charter della neve. Sono numeri in aumento ma selettivi. Al di là delle dicotomie di oggi, però, si dovrebbe sfruttare questo momento per pensare alla prospettiva a lungo termine di questi luoghi».

Di fallimenti e riconversioni

C’è un impianto dismesso che vi è rimasto impresso più di altri? «Noi abbiamo scritto questo libro per lanciare un campanello d’allarme con uno sguardo realista, non catastrofico. È stato un lungo viaggio da Ventimiglia a Trieste e poi giù fino in Sicilia. Sono tante le immagini che mi sono rimaste impresse: mi viene in mente un impianto piemontese fallito vent’anni fa che è ancora lì, con il rumore dei tralicci che cigolano quando soffia forte il vento. Ho visto strutture completamente abbandonate, non dimenticherò mai lo scheltro di quattro piani di cemento fermi da dieci anni».

Ci sono storie che guardano in un’altra direzione. Raccontano della scommessa in un turismo invernale meno visibile forse, ma più sostenibile. Molte fanno parte del progetto “BeyondSnow – Oltre la neve”, che si propone di aumentare la resilienza socio-ecologica delle piccole destinazioni turistiche situate a media altitudine, per consentire loro di mantenere la propria attrattiva per residenti e turisti. Prevede, grazie a una rete di partner (Eurac research capofila), l’elaborazione congiunta di nuovi percorsi di sviluppo sostenibile e transizione all’interno di specifiche aree pilota individuate in sei paesi alpini.

Un esempio di rigenerazione? «A Piani d’Artavaggio, località a cavallo tra la provincia di Lecco e Bergamo, nella splendida cornice della Prealpi Orobiche, tra i 1600 e i 2000 metri, il Comune ha avuto il coraggio di acquisire gli impianti di funivia e di smantellare tre skilift, oltre a rinaturalizzare un altipiano molto bello. Dopo quell’operazione, l’area ha vissuto un rilancio all’insegna di passeggiate, ciaspole e scialpinismo, il numero dei rifugi è raddoppiato e le presenze invernali sono più alte di quando gli skilift erano attivi».

Due visioni contrapposte

Il testa a testa tra promotori e oppositori al collegamento tra le stazioni sciistiche di Colere e Lizzola (toni accesi a parte) è il ritratto di due visioni di futuro contrapposte. La frattura è insanabile o c’è un piccolo spiraglio in cui incontrarsi? «Siamo nel mezzo di un cambio di paradigma», continua Dematteis. «Dobbiamo prendere consapevolezza che non c’è niente che possa andare a coprire il cratere che lascerà l’industria dello sci. A certe altitudini non ha senso ricercare un nuovo modello monoindustriale, dobbiamo imparare a pensare a una rete di piccole attività artigianali».

C’è un dato incontrovertibile tra le due visioni. Il successo di un impianto sciistico dipende da due fattori che possiamo dare sempre meno per scontati: il freddo e la neve. In Italia, l’inverno 2024 è stato il più caldo mai registrato dal 1800 a oggi (dati Copernicus), con un’anomalia di +2,19°C rispetto alla media del periodo 1991-2020. E il dossier Nevediversa 2024 di Legambiente mette in luce l’insostenibilità del sistema: 177 gli impianti temporaneamente chiusi nella penisola (+39 unità rispetto al report precedente), 93 quelli aperti a singhiozzo (+9 rispetto al report precedente), in crescita il numero di strutture dismesse che raggiungono quota 260 e quello degli impianti che sopravvivono soltanto con forti iniezioni di denaro pubblico (241). «I finanziamenti servono dove le stazioni sciistiche funzionano, altrove occorrono investimenti, anche soltanto in termini di attenzione, per un turismo esperienziale, consorzi di piccoli produttori, sentieristica, ecosistemi».

Anche la neve è cambiata. «Non basta più sperare che nevichi. Dobbiamo imparare a prendere la neve quando c’è e quando è buona, facendo attenzione perché è più instabile. Concentrarci non tanto su quel che non è più, ma su quel che non è ancora».

In apertura, un impianto di risalita dismesso a Roccaforte di Mondovì (Cuneo). Fotografia di Marco Alpozzi/LaPresse

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